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Brandish: The Dark Revenant - Se mi lasci non vale

L’aspetto curioso del recensire un titolo Falcom sta nel doversi destreggiare tra le versioni primigenie di un singolo gioco, appartenente come minimo a una saga disarticolatasi in qualsiasi sistema di computer e console esistito o esistente, e i suoi innumerevoli e spesso irrintracciabili rifacimenti, rifacimenti dei rifacimenti e varianti alternative degli stessi rifacimenti: una babele che annovera, nel suo nucleo, la mitologica saga di Dragon Slayer, nel suo espandersi, alcune fra le più importanti serie di giochi di ruolo mai create e, nel suo particolarizzarsi, un rincorrersi di titoli che esaltano lo spirito di qualunque giocatore mediamente invecchiato negli anni, e gloriosamente abbarbicato nel suo volere giochi che siano giochi e non meri prodotti di intrattenimento auto-svolgentesi. Brandish: The Dark Revenant è vecchio, rifatto, ostinato nel suo essere ostico e gaudente nel suo lasciarsi svelare. Da giocare, conservare, e rigiocare quando avvinti da inesorabile nostalgia per quel che fu.

Uscito tipo sei o sette anni fa su PlayStation Portable giapponese, correva forse l’anno 2009, Brandish: The Dark Revenant è arrivato solo questa estate qui da noi, sotto forma di contenuto digitale da scaricare dallo store europeo dell’appena citata PSP. Sì sì, proprio PSP, che per l’occasione ho recuperato dagli anfratti reconditi della collezione casalinga, rispolverata a dovere e rimessa a nuovo per quella che mi si preannunciava come l’ennesima esperienza definitiva vissuta sulla beneamata consolina, resa grande proprio dalle prodezze della sempiterna Falcom.

Tralasciando le vicissitudini storiografiche di Brandish, che non basterebbero due o tre paragrafi a raccontarle, conta giusto dire che questo The Dark Revenant e un rifacimento (ma va!) dell’originale primo capitolo della serie, mi premunisco di andare dritto al sodo: volete un’esperienza “dungeon crawler ruolistica” vecchio stampo, difficile il giusto, onesta nel suo proporsi e capace di avvincere grazie a un calibrato mix tra azione, rebus ed esplorazione? Sì? Bene, sapete cosa scaricare sulla vostra PSP o sulla vostra PS Vita. Che rende uguale.

L’eroe è muto. Nel senso che non spiccica, bontà sua, una riga di testo che sia una. Assomiglia un sacco ad Adol, quello di Ys, “Adol il rosso” per intenderci, ha pure gli stessi vezzi. O quantomeno si intuiscono. Dato che la storia è assente. Piace un sacco alle donne, proprio come Adol. E infatti ce n’è una (e non una qualsiasi, parliamo di Dela, forse la più bella figliola che la storia dei videogiochi mi abbia mai propinato) che lo insegue qua e là, tra un labirinto e l’altro, per motivi che solo lei sa e con un'attitudine acido-rancorosa pari solo alla sfiga che la perseguita: esilaranti le scenette che la vedono vittima delle più subdole trappole.

Ma quanto bella non è?

Proprio a causa della scorbutica Dela, Ares, l’eroe, precipita alle pendici di una vetta sotterranea e misteriosa, con annesse rovine di una civiltà perduta: tra lui e la meta, l’agognata superficie, qualche decina di labirinti da superare e una manciata dei soliti mostri. L’azione è in tempo reale, niente turni, la visuale inclinata dall’alto alle spalle del protagonista. I movimenti sono spigolosi: crocetta per gli spostamenti, avanti e indietro e passi laterali; dorsali per ruotare tutto intorno. Granuloso nello spostarsi, claudicante nel combattere. Solo all’inizio, però, poi si prende la mano. E si gioca senza particolari problemi: mai snelli, un filo contorti, comunque efficaci.

I piani di gioco sono ampie distese suddivise in cunicoli, separati da porte e intervallati da stanze: precisi nel loro essere labirintici. Una scarna mappa aiuta quanto basta, o forse meno: un minimo di indici per segnare alcuni punti critici e una più precisa mappatura delle zone attraversate avrebbero giovato. Si va avanti e indietro senza soluzione di continuità. Backtracking all’ennesima potenza. Fatto bene, però.

Ecco la fine di chi non è vaccinato contro il backtracking… fuga impossibile… appunto.

Quel che fa godere è il connubio tra gli elementi in gioco: l’esplorazione si esalta per la conformazione dei piani, arzigogolati e introversi come pochi, e lo scervellamento richiesto per traguardare il 100% di mappatura; il combattere è armonico e funzionale al procedere, mai eccessivo o sovrabbondante, un pizzico di sale tra l’incedere e il pensare; gli enigmi, pochi ma ben congegnati, aiutano il ritmo e riescono a suscitare una certa crisi interiore. I suggerimenti stanno quasi a zero. E il quasi è un elemento assai gradito. Il giocatore è un avventuriero e come tale si riconosce. Non c’è finzione. Solo una certa maestria richiesta nel dosare le risorse, da distribuire in uno zaino decisamente poco capiente: il gioco costringe a rinunciare, a lasciare andare, a scegliere l’essenziale. Brandish sa di percorso iniziatico. Non riesce ad esserlo fino in fondo, nemmeno ci prova, forse. Quantomeno fa pensare che possa essere così. In questo si lascia amare.

Le armi si rompono con l’uso. La qual cosa induce a credere che sia meglio accatastarne decine e decine nello spazio a disposizione, per non restare senza, nudi e disarmati, a dispetto di alcune spade indistruttibili che compaiono qua e là (la più parte delle quali mal distribuita verso la fine del gioco). Queste ultime puzzano di compensazione, o strana agevolazione. L’equilibrio non è perfetto. Si indugia nel portarsi appresso più del necessario, spadoni di assoluta potenza, esuberanti rispetto alle scarne occasioni d’uso: giusto i boss di fine percorso. Meglio vendere, affidarsi alle meno potenti “spade Duracell”, e comprare al più presto le magie consuma MP. E sparacchiare palle di fuoco a profusione: quintessenza della libidine.

HaDouKen!!! Tra parentesi, notare il micidiale accerchiamento derivante da disgraziatissimo pulsante malefico calpestato da Ares…

Brandish: The Dark Revenant non si sottrae al rischio noia. Fin dal principio, se non avvezzi al genere o se appartenenti a una qualsivoglia e non meglio precisata “nouvelle epoque” videoludica (quella di “Evviva la varietà”, “Evviva i mondi aperti”, “Evviva fare mille cose che non c’entrano niente col gioco purché il tutto duri settemila ora in più”); verso la conclusione per i nonnetti anacronistici che blaterano sulle panchine dei parchi, che troveranno materiale fresco fino al penultimo strato, con labirinti sempre più complessi e coriacei nel loro dischiudersi (si va dalle semplici mura di cartapesta alle botole sconfina piano, fino a un tetro e demoniaco mondo nero nel quale si avanza tra la nebbia), e un blando riciclo di idee da lì in poi, fino al boss conclusivo, con una sorta di labirinto nel labirinto infestato da mostri spropositati, dove non si fa altro che girare e girare e girare senza brio e con scarso trasporto emotivo.

Toh, le mura di cartapesta da prendere a martellate…

Ti toglie il sorriso solo alla fine, insomma, l’avventura di Ares, ma senza cattiveria: una sbadataggine, un sovradosaggio di livelli che supera la soglia di tolleranza. Poi, grazie al cielo, il gioco finisce, tipo in una ventina di ore abbondanti, anche trenta, se si perde la bussola, con la sua bella schermata riassumi prestazione e poco altro, carina però la sequenza finale!, e si sblocca il Dela-Mode: pochi avvincenti piani da affrontare con la pestifera streghetta: imperdibile. E provante.

Oltreché da bollino Frechete!, Brandish è un gioco da nove. Sì, uno di quei rari giochi a cui mi viene da dare un nove. Non un nove da gioco figo, di quelli fatti bene in senso stretto: zero sbavature, tanta classe. Stile Nintendo vecchi tempi. È più una materia recalcitrante benché finemente formata, da lasciare così com’è perché affascinante nel suo trattenere i bozzi, la lava, una segreta fiamma lussureggiante. Ecco, l’idea di qualcosa che hai bisogno di scrutare per cogliere. Mi vengono in mente un paio di giochi simili, usciti su Nintendo DS: Infinite Space e Vakyrie Profile: Covenant of the Plume. Unici nel loro essere polverosi, selvaggi, contorti, ma intimamente coerenti e lineari dall’inizio alla fine. Basati su una sola idea vincente e capaci di svilupparla fino in fondo. Giochi che ti sporchi le mani. Che sviluppi anticorpi. E impari a distinguere cosa sì e cosa no. Brandish è decisamente una cosa sì.

Cara Falcom, se mi lasci non vale…

Ho scaricato Brandish: The Dark Revenant dallo store europeo di PSP, pagandolo quei 19 euro e qualche cent che mi pare costi. Aspettavo felice la fine del download e son rimasto felice per l’intera durata dell’esperienza: 24 ore circa per liberare Ares, circa la metà per riuscirci con Dela.