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Blanc, che giri fanno due vite

A Febbraio -almeno in Italia- accadono due cose importanti che catalizzano l’attenzione della maggior parte del paese: Sanremo e San Valentino. Premetto che snobbo più o meno in egual misura tutti e due, ma come succede per il Whamageddon (la pratica che consiste nel cercare di evitare di ascoltare Last Christmas degli Wham dal primo dicembre fino alla vigilia di Natale) è diventato impossibile non imbattersi in qualche meme, notizia, pubblicità, post o quant’altro. Da queste poche risorse sono riuscito a dedurre che Marco Mengoni si è aggiudicato il festival con una canzone il cui refrain fa “che giri fanno due vite”. Ecco, Blanc, uscito non a caso il giorno di San Valentino, parla proprio di questo, di due vite apparentemente distanti, che invece si incontrano per un breve ma intenso momento.

Prima ci studiamo, poi al limite ci incontriamo.

Josef Fares si è costruito un’intera carriera con i videogiochi d’avventura cooperativi. Partendo nel 2013 con Brothers: a tale of two sons, passando per A way out fino ad arrivare al pluripremiato It takes two, ormai ha stabilito lo standard per chi vuole approcciarsi a questo genere. Con Blanc, il piccolo studio francese Casus Ludi prova a dire la sua, puntando tutto su una direzione artistica pregevole e due protagonisti che è impossibile non amare fin da subito. 

Solo un cuore di pietra può non provare tenerezza

Se avete sempre sognato di poter giocare nel ruolo di un piccolo lupo nero o di un cucciolo di cerbiatto bianco, allora avete trovato il titolo che fa per voi. In un settore come quello dei videogiochi, dove i gatti (ma anche i ricci, le volpi e i gorilla) la fanno da padroni, è giunta l’ora del riscatto per queste specie snobbate. Il mondo di gioco si presenta subito ai nostri occhi come una landa desolata ricoperta di neve, i corsi d’acqua sono ghiacciati, non c’è la benché minima presenza umana. Solo tanto bianco abbacinante. Poche note al pianoforte e il rumore del vento sottolineano il senso di vuoto e freddo che questo paesaggio evoca. Da un cumulo di neve sbuca un cucciolo di lupo nero che controlliamo con l’analogico sinistro. È solo ed è chiaramente impaurito. Lo si percepisce dal suo ululato disperato in cerca di qualcuno. L’unico animale che incontra lungo il sentiero però è un piccolo cerbiatto bianco riparato sotto una roccia. Anche lui è solo e smarrito. A questo punto, giocando in singolo, possiamo prendere anche il controllo del cerbiatto con l’analogico destro. Ma l’esperienza migliore -per cui credo sia stato concepito tutto il gioco- è sicuramente quella cooperativa. Ho chiamato allora mia figlia in aiuto e ci ha messo due secondi ad entrare nel mood dolce e malinconico allo stesso tempo del gioco, scegliendo di interpretare il cerbiatto, mentre a me è toccato il lupo.  Abbiamo così iniziato un viaggio alla ricerca delle rispettive famiglie. Sulle prime i due protagonisti si sono tenuti a debita distanza, visto che non scorre buon sangue tra le due specie, per poi scoprire ben presto che senza l’aiuto reciproco non sarebbero potuti andare avanti. Il lupacchiotto infatti essendo più basso non riesce a raggiungere luoghi particolarmente alti, mentre il cerbiatto con quelle gambe slanciate sì. Al contrario, il cerbiatto non può attraversare pertugi piccoli, mentre il lupo sì. O ancora il cerbiatto riesce a spingere oggetti, mentre il lupo può tirarli. Tutto il gioco è basato su questa meccanica che vede i due protagonisti aiutarsi a vicenda per sopperire alle carenze dell’uno o dell’altro e proseguire il viaggio senza che nessuno resti indietro. Più avanti incontreremo altri animali da aiutare e che introducono anche piccole variazioni nel gameplay. In questa porzione di mondo privata della presenza umana dalla glaciazione, di cui si possono intravedere solo i resti della civiltà antropocentrica che fù, sembra che solo le piante e gli animali siano sopravvissuti. Una favola triste che ribadisce il concetto che “luomo non è affatto il padrone della Terra, ma soltanto uno dei suoi condomini più spiacevoli e molesti”. [S. Mancuso, La nazione delle piante

Che giri fanno due vite.


Un'aura Journey-sca (passatemi il termine) avvolge tutto il gioco, soprattutto nei grandi spazi vuoti dove l’unica cosa da fare è camminare o ancora meglio scivolare lungo le discese innevate contemplando il paesaggio. Queste fasi esplorative molto lineari sono interrotte da puzzle ambientali dapprima molto semplici poi via via più grandi e complessi ma mai troppo difficili. L’esperienza è davvero breve, in un paio d’ore si porta a termine. Ma è un viaggio poetico a cui si perdonano i movimenti di camera non sempre precisi che impallano la visuale o i puzzle non sempre a fuoco. La direzione artistica è pregevole, l’uso del bianco e nero contestuale e non vezzoso. La colonna sonora delicata si regge su poche note al pianoforte e alcuni momenti orchestrali. È un’esperienza duale, giocata tutta sui contrasti e le differenze. Differenze di colore (bianco e nero), di razza (lupo e cerbiatto), di sensibilità (forza e delicatezza). Quello che rimane alla fine è che per quanto breve sia stato il viaggio, l’importante è averlo condiviso. Perché come canta Mengoni, non si sa mai “che giri fanno due vite”. Sanremo è morto, lunga vita a Sanremo.