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Il videogioco come slow food: Baldur's Gate 3, un approccio molto pensato (e molto gustoso)

Penso che negli ultimi tempi la mia vita sia diventata quella dell’adulto standard: pochissime finestre di libertà concesse in una routine stretta di impegni, e poi il weekend per videogiocare. Con un po’ di furbizia (e spirito di sacrificio) sono riuscito a ritagliarmi dei momenti extra da dedicare alla mia passione. Per esempio, al mattino dormo un’ora in meno per giocare un po’ prima di andare a lavorare. Si tratta di una mezz’ora buona col pad in mano. Una volta per mezz’ora non avrei nemmeno acceso la console, ma spesso quei trenta minuti sono gli unici che ho a disposizione in tutta la giornata. Quindi me li godo con gli occhi nervosi che si spostano continuamente dallo schermo all’orologio.

Di mezz’ora in mezz’ora ho giocato ai grandi titoli dell’anno, da Zelda a Final Fantasy, da Armored Core a Pikmin. Ogni volta che accendevo la PlayStation, l’obiettivo era di fare il più possibile nel tempo che avevo a disposizione. Poi è arrivato Baldur’s Gate 3 ed è cambiato tutto.

Avete presente quell’invenzione del marketing che risponde al nome di slow food? In pratica è un modo come un altro per dirvi che sarebbe un peccato infilarsi una forma di parmigiano direttamente in gola. Punto primo perché probabilmente morireste soffocati, punto secondo perché si presume che lo status mentale e il sentimento di privilegio nell’assaggiare un cibo così pregiato sia già parte dell’esperienza. Per esempio certi vini vanno sorseggiati, gustati, lasciati decantare. Sei tu che ti adatti al ritmo che impone una leccornia del genere, anche per rispetto dei tanti passaggi che te l’hanno portata nel piatto (o nel bicchiere), e magari per cercare di capire con più consapevolezza cos’è che stai mangiando o bevendo. C’è anche un’altra spiegazione: l’idea stessa dello slow food è lì per combattere un impulso consumista che, con sempre meno tempo libero a disposizione, ci costringe a tritare tutto nel più breve tempo possibile, così da poter accumulare più esperienze, essere più efficienti e produttivi. In questo modo quella che a tutti gli effetti è una trovata markettara assume un aspetto nobile: alcune cose non puoi semplicemente buttarle giù senza pensarci. Devi reimparare a mangiare per mangiare, non per consumare.

Ecco, Baldur’s Gate 3 è come una forma di parmigiano stagionato 36 mesi, come quella bottiglia di vino che hai tenuto chiusa per le grandi occasioni. Non è letteralmente possibile ingoiarlo e passare ad altro.

Vi faccio un esempio: è capitato che in quella famosa mezz’ora prima di andare al lavoro passassi tutto il mio tempo a sistemare l’inventario dei personaggi. O a chiacchierare con un mercante. O a pianificare per filo e per segno un’azione, vederla fallire e ricaricare per ricominciare da capo, perdendo di fatto tutta la mezz’ora di gioco. Ma mi è capitato anche, durante i weekend, di passare due ore filate chiacchierando con uno scoiattolo, esplorando case, dedicando decine di minuti al passaggio di livello dei personaggi. A scegliere quali magie preparare, i talenti da assegnare, immaginando situazioni durante le quali avrei potuto sfruttare l’incantesimo di invisibilità. E poi di dover spegnere, con la sensazione di non aver fatto il minimo progresso, specialmente nei primi tempi, quando venivo dal ritmo forsennato di Armored Core 6, dove nel giro di mezz’ora avevi sbracato centinaia di mech. Quei giorni in cui ho iniziato la mia avventura su Baldur’s Gate 3 sembrava quasi che ci fosse qualcuno, acquattato nell’ombra, che muoveva le lancette dell’orologio per segare il tempo a mia disposizione. Salvo che l’orologio in sala è digitale e le lancette non ce le ha nemmeno.

Ci sono almeno tre ragioni per le quali Baldur’s Gate 3 ha questo ritmo ipnotico e profondissimo, impossibile da spezzare. La prima è che chiunque abbia passato una serata tra amici a giocare a Dungeons & Dragons conosce la quantità di tempo che deve essere dedicata alla gestione dei personaggi: crearli, passare di livello, scegliere talenti e incantesimi, abilità ed equipaggiamento, affrontare le infinite discussioni con il master a proposito delle circostanze in cui è possibile usare o non usare alcune strategie. Insomma, D&D è un gioco a base di pianificazione, studio e compromessi. E Baldur’s Gate 3 è fatto della stessa foggia. Cercare di incastrare bene i pezzi richiede lunghe fasi di organizzazione delle risorse.

La seconda ragione è che si tratta di un gioco talmente denso da farti venire il mal di testa. Le mappe di gioco non sono immense, ma sono colme di particolari, di personaggi, di possibilità per interagire con il mondo. Da questo punto di vista, a volte il gioco assomiglia quasi più a The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom che a un GDR come The Witcher 3.

Vi faccio un esempio: c’è un nemico che non riuscite a superare perché è molto più forte del vostro gruppo? A me era capitato con un’orribile megera. Un combattimento che si svolgeva sul ciglio di un burrone che si spalancava sull’Underdark. Dopo innumerevoli tentativi, ho usato un incantesimo per creare acqua ai suoi piedi e poi l’ho spinta verso il crepaccio. Buon viaggio. La battaglia si è risolta in un istante. Certo, ho perso il loot, ma sono riuscito a proseguire. Compromessi.

Ecco un altro esempio: non riuscite proprio a capire dove il carceriere del villaggio abbia nascosto la chiave delle prigioni? Se avete un incantesimo di “parlare con gli animali” potreste provare a interrogare il suo gatto. E se avete abbastanza feeling con gli animali probabilmente si lascerà sfuggire un qualche dettaglio importante. E questi sono esempi nemmeno troppo creativi di un titolo che permette di manipolare in ogni modo ambiente e personaggi. Solo che per pensare e mettere in pratica queste belle idee, serve tempo, serve testa, serve fermarsi e ragionare. Oltre al fatto che le possibilità sono tante, c’è da considerare che sono anche complesse e potenzialmente fatali. Spesso una buona trovata sulla carta diventerà, per colpa del dado o per colpa di un particolare che non avete preso in esame, il preludio a una situazione catastrofica, dalla quale poter sfuggire solo ricaricando la partita.

Ecco la terza ragione: l’interfaccia non è sempre all’altezza delle sue ambizioni. Proprio in nome di questa creatività spiccata, a volte il gioco sembra fare di tutto per frapporsi tra la tua idea e la sua realizzazione. Mi rendo conto di giocarlo con uno schema controlli, ovvero il pad, che di certo non è quello “nativo” per questo genere di giochi, ma credo che anche con mouse e tastiera avrei avuto difficoltà simili. Forse, l’unico macro difetto di Baldur’s Gate 3 è un’interfaccia non proprio brillante, ricca di menù e sottomenù, di strumenti a volte convoluti per mettere in atto azioni molto semplici. Non è un compito semplice, quello di tradurre in codice la libertà della fantasia umana, ma sono sicuro che da questo punto di vista si sarebbe potuto fare di meglio. Magari snellire un po’ alcuni passaggi, rendere più piacevole l’esperienza di navigazione tra i tasti.

È pur vero che quando si ha a che fare con un gioco in totale disaccordo con le tendenze del mercato, bisogna saperne accettare i compromessi. Baldur’s Gate 3 ti incoraggia a iniziare diverse run, a interpretare personaggi differenti, a ricominciare, a ripartire, a prendere scelte diverse, spingendoti a sperimentare ancora e ancora per via delle migliaia di opzioni di personalizzazione e dei micro e macro cambiamenti che influenzano il mondo di gioco. Sembra quasi che voglia fornirti uno strumento per intavolare avventure, che voglia convincerti a mettere in pausa la rincorsa ossessiva alla nuova uscita in nome dell’approfondimento di un singolo gioco che ne contiene migliaia. Un forziere pieno di tesori, un prisma dalle mille facce scintillanti.

Si tratta di un gioco anarchico, dicevo, in un mercato che sta cercando di adattarsi ai ritmi forsennati da catena di montaggio dei servizi in abbonamento come Game Pass, dove l’uscita delle nuove release è scandita a ritmo militare e i giochi hanno una “data di scadenza”. Baldur’s Gate 3 è coraggioso, imperfetto a volte, ma ambizioso nel voler innestare nel cervello del giocatore una concezione differente di blockbuster, anche se si è trovato a ricoprire il ruolo suo malgrado, con un successo travolgente che francamente era difficile prospettare. E forse questo ci dimostra che, a differenza di quello che pensano alcuni sviluppatori che recentemente hanno puntato alla semplificazione assoluta delle meccaniche di gioco, spogliando di tutti i tratti complessi titoli come Final Fantasy XVI, noi giocatori non siamo una causa persa. Ci piace essere sfidati. Ci piace mettere in discussione il modo in cui giochiamo. Ci piace tirare il dado e fallire. Tentare di nuovo. Rialzarci ancora.