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Ah, l'Avventura...

C’è stato un momento preciso nel quale ho colto l’effettiva entità del concetto di avventura: non prestissimo, e attraverso mezzo di un fumetto per adulti.

Nella prima pagina, estremamente ristretta nel formato che quasi comprime le chine in uno spazio inadeguato ad accoglierle, un uomo normale decide di cambiare radicalmente la sua vita, perché è arrivata l’Avventura!

Formarsi con un certo tipo di cinema anni ’80 martellante per tutta la durata della propria giovinezza significa dare all’avventura una connotazione precisa. L’avventura, come la conoscevo, aveva dei parametri, dei riferimenti culturali e temporali stringenti. L’avventura era figlia di tempi più ingenui, di quando sulle carte geografiche abbondavano gli spazi bianchi, linee della costa che incrociano il mare e una x da seguire. Lo schema è quello che mi ha trasmesso il professor Henry Jones Jr. una ricerca, la quest per un manufatto (che svariato tempo dopo avrei chiamato dispositivo narrativo), era collezionare pezzi per raggiungere una meta, ma soprattutto muoversi. E qui la funzione del dispositivo narrativo, che con le sue trame gravitazionali attira inevitabilmente i contendenti.

È una visione parziale, o semplicemente un modo di metterla, sicuramente tra i più leggibili e immediati. Il tesoro, la missione, sono la forma che dall’interno proietta il concetto di avventura verso l’esterno: “ritrovare l’Arca dell’alleanza” checché ne dicano i detrattori della sceneggiatura, è una motivazione forte, e soprattutto non potevano sapere che venendo aperta avrebbe brasato via il fuhrer, e quindi va bene così.

Ma c’è un’altra avventura, l’ideale di avventura, che serpeggia anche tra i banchi dell’aula del professor Jones, che lo fa uscire dalla finestra quando ha troppi studenti a ricevimento, ed è l’incondizionata rottura dello status quo, contro l’insoddisfacente, ristagnante presente.

La dimensione escapistica è da sempre associata al genere e alle sue metaforiche inconsapevolezze. Fascino per l’esotico, desiderio di potenza, quello che distingue l’Avventura da una qualsiasi altra forma generica che riprende le stesse tappe strutturali si basa su due caratteristiche ben precise, fondate sulla natura del protagonista. È anche la grande differenza che passa tra supereroismo e avventura. Indiana Jones alla fine è un professore universitario, scevro del superomismo di suo padre James Bond (sì, sto alludendo ad un vecchio articolo del Peduzzi), nonostante una vena avventurosa che imprescindibilmente colloca i romanzi di Fleming lontano dal genere spionistico (di un LeCarrè), per James Bond quello è lavoro. Quella che noi definiremmo un’avventura straordinaria, per Bond è un normale giovedì, e questo fa tutta la differenza, nel momento in cui a vivere l’avventura è un personaggio straordinario e chi invece in quell’avventura vede, appunto, l’eccezione alla regola del quotidiano, la persona normale, che possiamo definire un avventuriero di secondo grado, cresciuto con l’avventura, che l'ha sempre vista e desiderata ma che non ha la preparazione fisica per sopravvivergli.

Giuseppe Bergman, con il suo nome mezzo esotico, mezzo banale, sposa l’avventura per l’avventura. Non c’era nessun imperativo morale, nessuna urgenza, nessun salvataggio. Nè fortuna, nè gloria.

Ti rendi conto che per me è arrivata l’Avventura?
Finalmente sarò solamente io a decidere quello che farò e quello che non farò.
MI alzerò ogni mattina completamente LIBERO!
Non pagherò più affitti, pedaggi e tributi solamente per esistere su questo schifosissimo pianeta!
Non dovrò più vendere la testa, le braccia e le gambe per sopravvivere!

La mia vita è mia! E non permetterò che quattro stronzi piedi di soldi mi costringano a viverla secondo i loro progetti del cazzo!

Non ne posso più di dover per forza seguire modelli assurdi, disumani e innaturali! Adesso basta!

C’è ovviamente da specificare il contesto politico interno.

Quando Manara scrive il suo H.P. e Giuseppe Bergman sono gli agitati anni ’70, che condizionano le parole del suo Bergman per trasformarle in un motto politico antiborghese. Manara già disegnava da un po’ ma quando decide di mettere sé stesso dentro le sue storie lo fa attraverso Bergman (che io ho sempre associato alla Ingrid di Casablanca), avatar cartaceo effettivamente somigliante al suo autore.

L’avventura in cui si imbarca è l’archetipo del concetto di avventura: va fatta per il semplice intrattenimento degli spettatori, propostagli da un anonimo “produttore” dopo una selezione che lo ha visto vincitore perché è stato l’unico a candidarsi. Per prima cosa, incontrare a Venezia il maestro dell’avventura HP, Hugo Pratt, l’autore (tra gli altri) di Corto Maltese e figura mitologica nello scenario avventuroso.

Di autori che scrivono storie per appagare loro stessi un desiderio insoddisfatto di avventura ce ne sono tanti, come Howard che dava voce al suo rifiuto per la modernità sulle pagine di Weird Tales, o Salgari che ha girato il mondo senza mai muoversi dal suo studio, Pratt non era di questa pasta, avendo girato parecchio contribuendo a far palpitare le avventure di Corto Maltese (tra gli altri) di un realismo magico. Manara esagera questa caratterizzazione dell’eroe come uomo comune portando a sperdere il suo Giuseppe Bergman, ma lasciandolo inadeguato alla strada da lui intrapresa, collocandolo in una dimensione sognante, inframezzando la storia di esagerazioni, fino al surrealismo, ma sempre coerente nel tono.

Il primo Manara era incredibile, prima che l’accento venisse posto sulle sue donne, condannandolo al cliché della rappresentazione del sessuale surreale, inquadrava l’avventura attraverso la lente del cinico disincanto, non escapismo ma materiale via di fuga.

Giuseppe Bergman viveva a metà tra la pagina e la realtà, in un contesto accelerato e fittizio che viene poi dato in pasto ad un pubblico di annoiati.

Giuseppe Bergman fa il giro, il primo soggetto dell’avventura ne è allo stesso tempo oggetto (avventuroso più che avventuriero). Più che un autore che mette se stesso nell’opera, ha la consapevolezza del lettore messo nell’opera, fa le cose che immaginiamo faremmo noi nelle sua situazione, spaesati e antieroici, nonostante la libertà da lui bramata sia irraggiungibile perché braccato dal suo autore, metatestualmente rappresentato dalle telecamere che lo riprendono per la trasmissione.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata a Indiana Jones, che trovate riassunta a questo indirizzo.