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Autopsy è quel buon horror, non eccezionale, che merita comunque

Cari amici di Outcast, so bene che per tanti di voi, cultori del cinema scemo-di-culo, questa potrebbe essere una domanda retorica, ma ecco, ve lo ricordate Trollhunter? Ma sì, proprio quel pazzissimo found footage norvegese del 2010 che riuscì a farsi apprezzare anche da chi ha odiato Cloverfield con tutto se stesso (e io, ci tengo a precisare, non sono fra questi). In caso non lo conosciate, va da sé, è da recuperare. Comunque, dopo questo debutto folgorante, il regista di Trollhunter, tale André Øvredal, è entrato nel giro che conta, frequentando i posti giusti negli Stati Uniti, soprattutto nell’ormai vastissimo ambiente seriale americano. Sul finire dell’anno scorso è riuscito poi a dare alla luce The Autopsy of Jane Doe, appena arrivato nei cinema italiani con un titolo un po’ semplificato: Autopsy. Lapidario e indicativo di quello che si andrà a vedere.

La trama, se vogliamo, ricalca un filone abbastanza inflazionato nell’immaginario del cinema horror, soprattutto degli anni ’80. Austin e Tommy Tilden, rispettivamente interpretati da Emile Hirsch (noto ai più per essere stato il protagonista di Into the Wild) e da Brian Cox (suvvia, c’è davvero bisogno che ve lo presenti?), sono una coppia, composta come si può intuire da padre e figlio, di coroner. I coroner, come sicuramente sapranno gli amanti dei vari film e telefilm sui detective, sono una sorta di corrispettivo, nei paesi anglosassoni, dei medici legali nostrani. Quelli che aprono i corpi e fanno le autopsie per verificare le cause dei decessi, insomma. Ecco, una bella sera ad Austin e Tommy viene affidato, da parte dello sceriffo di turno, il corpo di ‘sta tizia, trovato in circostanze oscure, nello scantinato di una casa misteriosa, nella quale gli stessi inquirenti stanno ancora indagando sulle possibili effrazioni accadute e cose così. Una bella nebulosa che toccherà, anche e soprattutto, a papà e figlio diradare, attraverso l’autopsia del cadavere in questione.

Effettivamente deve pigliare malissimo quando fai il medico legale e ti si presenta, da morta, una figa del genere.

Autopsy fin da subito riesce a catturare l’attenzione per la buona introduzione che presenta: personaggi leggibili ma non didascalici, cliché mai troppo invasivi e, soprattutto, una buona costruzione attorno al perno della trama... il cadavere, appunto. Aprendo, spellando, scartavetrando e sbudellando, Austin e Tommy iniziano, tassello dopo tassello, a ricomporre la stranissima morte - e il mistero che c’è dietro - di questa giovane donna. Soprattutto nella prima parte, tutto questo procedimento è reso perfettamente da Øvredal, che tiene lo spettatore incollato allo schermo svelando, pezzo dopo pezzo, che c’è qualcosa al di fuori della concezione umana in quel corpo morto. Eppure, dopo non molto, Autopsy prende una piega diversa, sfociando, come facilmente intuibile, in un paranormale-psicologico, attraverso una serie di WTF che, boh, un po’ ti lasciano interdetto, soprattutto perché sorretti da un montaggio non sempre pertinente. Una deriva, questa, che comunque viene parzialmente giustificata dai venti minuti finali, col classico climax da disvelamento, misto a sensazione di angoscia, che dà sempre soddisfazioni. Autopsy dunque non è una di quelle robe clamorose che rivoluzionano il genere degli horror, ma si fa guardare con grandissimo piacere, grazie soprattutto a una costruzione che, tutto sommato, riesce a far soprassedere anche di fronte a sbavature abbastanza notevoli.

Quando ho detto a giopep di aver visto Autopsy pensava mi stessi riferendo ad una sua pubblicazione in homevideo o su Netflix. E invece toh, i distributori italiani l’hanno piazzato al cinema. Che bella notizia, no? Infatti l’ho visto, sfruttando un passaggio del mio coinquilino, al cinema; doppiato, ovviamente, però vabbé, non pretendiamo troppo.