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Akira: Sui giovani d’oggi, tipo Kaneda o Tetsuo, ci scatarro su

Oggi si festeggia il trentesimo anniversario di Akira, e per l’occasione, grazie agli sforzi di Nexo Digital e Dynit, il film sarà rilanciato in sala con un doppiaggio nuovo di zecca.

A pensarci così, sui due piedi, mi viene difficile raccogliere le idee per raccontare l’impatto che ha avuto Akira sulla mia generazione. In quella gloriosa primavera del 1992, quando il lungometraggio di Katsuhiro Ōtomo - tratto dal suo omonimo manga - uscì per la prima volta nei cinema italiani, beh, fu davvero una bella botta. All’epoca lo scenario dell’animazione giapponese, qui dalle nostre parti, era completamente diverso da quello attuale.

I manga stavano giusto cominciando a spuntare nelle fumetterie grazie a case editrici eroiche come Granata Press. Lo stesso Akira cartaceo era sbarcato sulla penisola un paio di anni prima per i tipi di Glénat, colorato e mai completato, mentre i primi OAV in VHS importati da Yamato Video cercavano di rendere giustizia all’animazione giapponese dopo le mutilazioni inflittele da Mediaset. Per la prima volta era possibile accedere a opere inedite, mature, ma soprattutto localizzate e doppiate come si deve.

Tutto questo movimento si infilò presto anche negli ambienti tangenti i manga. Su riviste di videogiochi come Zzap! e The Games Machine iniziarono a spuntare le prime recensioni di anime. Per dire: lo splendido Lamù - Beautiful Dreamer, di Mamoru Oshii, lo recuperai proprio grazie ai suggerimenti di qualche redattore di allora.

In mancanza di una distribuzione capillare, iniziarono anche i pellegrinaggi verso i negozi dedicati espressamente ai fumetti, quasi sempre allocati nelle grandi città. Noialtri si andava a Milano per spulciare tra gli scaffali tutti leccati di Yamato Video, o tra quelli polverosi de La Borsa del Fumetto, dove finivo sempre per acquistare dozzine di albi in una botta sola.

In un contesto del genere, l’idea che al cinema potessero passare delle opere di animazione per adulti - per di più giapponesi - al posto dei classici musical targati Disney (che pure apprezzo, beninteso), beh, sembrava davvero una cosa fuori dal mondo.

E invece, come un messia si materializzò lui, Akira, che in nel giro di due ore e cinque minuti di visione spazzò via tutto quello che era venuto prima.

Ora, non ho idea se quello di Ōtomo sia stato effettivamente il primo anime mai proiettato nei cinema italiani, ma senz’altro è stato il primo che ho visto.

Ricordo che appena uscito dalla sala non avevo capito quasi niente, della trama. Il che, a pensarci oggi, era probabilmente inevitabile: da un lato certe scelte di localizzazione erano uscite proprio maluccio. Dall’altro, il film aveva rinunciato a parecchi passaggi presenti nel manga, riducendo il racconto all’essenziale.

Eppure, avevo ancora nelle orecchie quella musica ansiogena e tamburellante, e gli occhi pieni di roba che si muoveva in continuazione, che non stava mai ferma. Pieni di palazzi, di scorci che si aprivano in parallasse; di tagli di energia, di moto fighissime che al loro passaggio disegnavano strisce al neon e scaricavano energia elettrostatica. Ma anche pieni di violenza, di sangue, di inseguimenti, di pasticche, di mal di testa con la scia, di bambini vecchi e azzurri. Di teppisti, di clown, di infarti, di tette, di adesivi. Di una morte davvero tremenda. Di poteri ESP, di pupazzi giganti, di giostre, di satelliti, di scuole che sembravano la mia. Di olimpiadi, di militari. Ma sopra ogni cosa, violentemente pieni dell’organismo “Tetsuo”, che durante la proiezione pareva quasi debordare dallo schermo.

Prendete quest'immagine, e ingranditela mentalmente quanto lo schermo di una sala cinematografica.

Tutte le mancanze narrative di Akira avevano finito con l’esaltarne gli aspetti dinamici e spettacolari, facendone un’opera non molto distante da esperienze audiovisive pure come Shining o 2001: Odissea nello spazio. In quest’ottica, il film non solo non sembra invecchiato di un giorno, ma si tuffa alla perfezione in quel flusso di cinema di movimento nel quale nuotano anche Mad Max: Fury Road o Dunkirk, che hanno fatto riscoprire al pubblico il gusto per la scena dopo anni di supremazia della trama. Oggi, in effetti, la riproposizione di Akira ha decisamente più senso rispetto a cinque anni fa.

Io stesso, se mi aveste chiesto di Akira, toh, verso la fine degli anni Novanta, probabilmente sarei stato più tiepido nei giudizi. Farcito com’ero da storie complesse e trame intricate immagino che ci avrei timbrato sopra un “bello, ma troppo semplice”.

Dopo il botto di Evangelion sono spuntati un sacco di anime di fantascienza cerebrali e pieni zeppi di simbolismi o sottotesti. Tutte opere che, tra l’altro, hanno in parte frainteso il lavoro sull’immagine di Hideaki Anno, che in ogni caso non si è mai azzardato a mettere la cabala, la psicoanalisi o qualunque altra delle sue fisse davanti alla potenza visiva (e lo stesso discorso vale per altri lavori della Gainax, come Abenobashi - Il quartiere commerciale di magia, o il favoloso Sfondamento dei cieli Gurren Lagann).

L'aula di Kaneda e soci è sorprendentemente simile alla "201" dell'Università degli Studi in via Festa del Perdono (MI).

Di contro, serie come Wolf's Rain, Ergo Proxy o Noein, comunque apprezzabili, a fronte di soluzioni artistiche più scontate hanno puntato moltissimo sulla scrittura, inseguendo tutte quelle tematiche in auge durante il primo decennio degli anni Duemila (rimandi alla meccanica quantistica, manipolazione del tempo e dello spazio, eccetera). Tematiche tra l’altro presenti anche in moltissime serie TV americane di genere come Lost o Fringe.

Così - tornando ai fatti miei - in piena sbornia da racconti complicati e spalmati su più episodi, avevo finito col dimenticare la potenza di un’opera cyberpunk così sintetica, quasi tronca. Eppure, fighissima.

E quando qualche sera fa me la sono sono rivista via Netflix, per la prima volta in lingua originale, non solo non ho rimpianto i tagli, ma me la sono stra-goduta. E mi è venuta una gran voglia di infilarmi al cinema, per assorbire ancora una volta su grande schermo tutta la densità impressa da Ōtomo al film. In fondo, era stata proprio quella potenza che nel 1992, all’indomani della proiezione, mi aveva spinto a recuperare quanti più adesivi possibili tra quelli appiccicati sulla moto di Kaneda - Canon, Citizen, Shoei, Arai, BMW - per addobbare la mia motoretta Piaggio.

Motoretta: come mi vedevo nel 1992.

Mi ero pure procurato un giubbino arancione, e quando sconfinavo un po’ dalle mie solite zone mi immaginavo di andare a caccia di Clown (mai trovato uno, nemmeno in zona circo).

Oggi, che il futuro di Akira e il mio presente si sono sincronizzati con tanto di Olimpiadi di Tokyo alle porte, proprio come indovinato da Ōtomo, se penso a Kaneda, Kaisuke, Yamagata e Tetsuo - a tutti i “figli della bomba” (come recitava enfaticamente una recensione dell’epoca) - mi vengono in mente i ragazzini che smarmittano con lo scooter nella piazzetta sotto casa.

Qualche settimana fa ho rischiato di incrociare Kaneda in motorizzazione per il rinnovo della patente.

E pure mi vengono in mente, che cosa buffa, le parole di una vecchia professoressa in quel film di Luchetti:

Insomma, Akira è invecchiato di trent’anni, ma i suoi protagonisti hanno appena iniziato le loro scorribande. Mentre io, se oggi giro in motoretta, posso al massimo immedesimarmi nel Nanni Moretti di Caro Diario. Altro che Kaneda.

Motoretta: come mi vedo oggi.