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A volte ritornano: come periodicamente ci ricordiamo dell'esistenza del cinema coreano

Negli anni in cui gli Oscar sono sempre più global e sempre meno manifestazione dell’America come concetto astratto, accade che a vincere l’ambita statuetta siano film “stranieri”.
Questa è una cosa divertente: per noi che ne discutiamo, sono tutti film stranieri, a meno che non considerarci tutti figli dell’ultimo baluardo della civilizzazione occidentale, così decadente e spesso inadatta a rappresentare le complesse contraddizioni della realtà.

Accade quindi che a vincere siano film stranieri come nel 2019, che è stata la volta di Parasite, splendido film coreano di Bong Joon-ho.

Il film è oggettivamente bellissimo come messa in scena, come temi trattati, come recitazione. È bello nel suo essere quasi teatrale, con la casa e i suoi piani/livelli come quasi unico palcoscenico; per come alterni i veri generi in maniera equilibrata passando dall’uno all’altro in scioltezza senza perdere un briciolo di ritmo.

Insomma un film potentissimo, molto duro e stranamente efficace nell’arrivare al grande pubblico (cosa di cui pare Nomadland non sia stato graziato).

Sta di fatto che grazie a Parasite il mondo si è ricordato dell’esistenza del cinema coreano.
Apriti cielo.

Le facce di quelli che si sono accorti nel 2019 che anche in Corea fanno film.

Il cinema coreano è una di quegli eventi ricorsivi nella storia dell’intrattenimento di massa.
I Coreani fanno film che ogni tanto bucano la bolla e da questa fuoriescono a cascata tutti i film che sono passati sotto il silenzio del pubblico per anni.
E non parliamo delle mostre, della distribuzione in lingua originale sottotitolata in inglese. Parlo del pubblico quello vero, non di quello che critica; di quello che guarda e paga.

Solo così si spiega il meccanismo della grande distribuzione che inizia improvvisamente a portare al multisala roba risalente agli anni precedenti, all’aumentare della domanda. O meglio, nel momento in cui l’attenzione si è focalizzata su un certo tipo di prodotto.

È così che arriva degnamente nelle sale italiane Memories of Murder, sempre di Bong Joon-ho, sostanzialmente lo Zodiac coreano.
Un film del 2003, arrivato in direct-to-video nel 2007 e in sala nel 2020.

Ma la Corea ci ha regalato altri maestri del cinema contemporaneo di cui troppo spesso dimentichiamo quando non vincono premi.
Per esempio, la bolla questo regista la bucò nel 2003, quando uscì il pezzo centrale della sua “Trilogia della vendetta” e forse il momento in cui oggettivamente tutto il mondo si rese conto per la prima volta che in Corea facevano film.
Sto parlando di Park Chan-wook e del sul Old Boy, meravigliosa e turpe storia di vendetta perpetrata da un uomo che viene rinchiuso nella cella di un carcere privato apparentemente senza motivo per anni… o forse no?

Erano anni in cui il tema della vendetta era molto forte, al cinema del resto arrivava Kill Bill e fu proprio grazie a Quentin Tarantino che lo acclamò mentre era presidente della giuria al Festival di Cannes nel 2004 a fargli bucare la bolla.
In tempi relativamente recenti, Old Boy ha addirittura avuto un remake diretto da Spike Lee, che vi sconsiglio caldamente perché l’originale, nonostante i suoi orientalismi ai quali ormai dovremmo essere abituati, è un film clamoroso.

Alla fine succede sempre così: brillante regista orientale va in America a fare il cinema con i soldi.
Nel 2013 è successo sia a Park Chan-wook che a Bong Joo-ho, il primo ha sfornato il dimenticabile Stoker, ancora una volta sul tema della perversione del concetto di nucleo familiare, mentre il secondo forse il film più noto della sua filmografia fino a Parasite, Snowpiercer (prodotto da Park Chan-wook, tra l’altro) già stracarico di tutti i possibili temi di lotta sociale ma “moderati” dal contesto dispotico come “una roba che non ci appartiene davvero perché tanto quello è il futuro”.

Sta di fatto che il penultimo film di Park Chan-wook proprio a causa della spaccatura nella bolla causata da Parasite ha ricevuto una distribuzione degna.

Mademoiselle (Handmaiden nel resto del mondo) è un film del 2016, ma io sono riuscito a vederlo recentemente perché camuffo la mia pigrizia nella lettura dei sottotitoli con “mi piace vedere tutto quello che accade a schermo” ed è, allo stato attuale, la più completa e sontuosa opera del regista coreano.

La storia prende il là dall’assunzione della protagonista a servizio di questa ricca famiglia giapponese che non sa che la ragazza è in realtà un’infiltrata di un abile truffatore intenzionato a mettere le mani sulla fortuna della suddetta famiglia.
Ora, solo questo incipit avrebbe materiale a sufficienza per svilupparsi per la successiva ora e mezza se non fosse che questi sono esattamente i primi dieci minuti di film.

Per i successivi centocinquantotto il film è un continuo ribaltamento di fronti, cambi di ruoli tra i personaggi, alternanza di punti di vista e rivelazioni sconvolgenti che, a ripensarci adesso mentre ne scrivo, mi fanno salire i brividi lungo la schiena.
Il film ha la tipica struttura a scatole cinesi (battuta facilissima) e sembra anche cambiare genere ogni volta che approcciamo il livello successivo.

È veramente affascinante ma la sua estetica è al servizio del puro male di vivere, nel senso che il film con la sua bellezza riesce a coprire una straordinaria serie di personaggi orribili e azioni turpi.
Vorrei seriamente fare spoiler ma proprio perché io ho approcciato alla pellicola nella più completa ignoranza di ciò a cui avrei assistito consiglio di sospendere la lettura ORA a chi non l’ha visto, poi magari torna e legge il seguito.

Linea dello spoiler, di cui abbiamo una diapositiva

E mentre arrivi a metà film un po’ capisci anche perché non ha avuto una distribuzione felicissima in Italia.
Ci sono delle immagini potenti, come la sala di lettura dove gli erotomani in cerchio assistono alla lettura di rarissime opere erotiche tradizionali giapponesi da parte della rampolla di casa mentre si struggono e sudano come guanciale su una padella arroventata immaginando di essere protagonisti delle scene raccontate.

Ci sono le ripetute umiliazioni e crudeltà a cui i protagonisti si sottopongono o vengono sottoposti a turno a seconda del punto di vista a cui stiamo assistendo. L’infinita serie di tradimenti è voltafaccia è quasi il minimo se consideriamo l’epilogo, nel seminterrato, con gli strumenti di tortura, la vasca col polpo e sigarette fumate con troppa fretta.
E in mezzo a tutto questo malessere il rapporto salvifico tra le due giovani donne esplicitamente rappresentato in segno di grande coerenza dell’autore, per il quale ci siamo sorbiti il male e il dolore ma anche il piacere.

Allo stato attuale, ritengo Mademoiselle il miglior film di Park Chan-wook ed è un peccato che una roba che meriterebbe di stare sulla bocca di tutti a causa di una distribuzione poco lungimirante e la più totale assenza di marketing finisca in una nicchia.
E chissà ancora quante opere meritevoli di una prolifica industria cinematografica passino inosservate dando modo a troppe persone di lamentarsi del totale monopolio delle sale di remake, sequel e film di supereroi.

Questo articolo fa parte della Cover Story “Meglio tardi che mai”, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.