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8mm è una spirale di perversione

È strano dirlo, ma c’è stato un periodo in cui Nicolas Cage recitava anche in buoni film. Non mi riferisco a quel Via da Las Vegas che gli valse l’Oscar o all’acclamato Birdy, ma a pellicole prevalentemente uscite negli anni Novanta e ad alto tasso di adrenalina, come Con Air, Face/Off e Fuori in 60 secondi, ben prima di film come Il Prescelto, pellicole in cui Cage ha accettato di recitare esclusivamente per poter saldare i numerosi debiti con il fisco. In quei film, la cosa meno imbarazzante era probabilmente il suo parrucchino.

Proprio in quel periodo va a collocarsi 8mm, uscito qui in Italia con l’intrigante quanto superfluo sottotitolo Delitto a luci rosse.

Cage interpreta Tom Welles, detective privato noto per la sua discrezione, ingaggiato dalla ricca signora Christian, da poco vedova, che ha trovato nella cassaforte del marito una pellicola in formato 8mm in cui una ragazza viene barbaramente uccisa da un tizio sadico che indossa una maschera di pelle nera. La ricca vedova vuole scoprire se la ragazza sia morta veramente oppure no e incarica Welles di scoprire la verità.

Sembrava un incarico finito ancor prima di iniziare, vista la difficoltà nel reperire informazioni utili dal solo filmato, ma il detective, partendo solamente dalla foto del volto della presunta vittima, dopo una lunga ricerca negli archivi delle persone scomparse, riesce a scoprirne l’identità: si tratta di una giovane di nome Mary Anne Matthews, scappata di casa per tentare di diventare attrice e per allontanarsi dall’assillante madre. Una volta giunto a Los Angeles, Welles si addentra a piccoli passi nel mondo del cinema per adulti, ma non quello “convenzionale”, bensì quello più estremo e sadico, accompagnato da un musicista di scarsa fortuna, Max California, che tramite le sue conoscenze lo introduce negli ambienti più squallidi e marci del settore, fino a quando Welles arriva a scoprire l’amara verità: la pellicola ritrovata dalla signora Christian è uno “snuff movie”, quindi l’omicidio è autentico, e la pellicola è stata commissionata dallo stesso Christian, un magnate tanto ricco quanto perverso. Il terzo atto del film è un crescendo di azione e tensione, in cui il buon Nic, giustamente disgustato e profondamente turbato da tutto ciò che è stato costretto a vedere (“Se balli con il Diavolo, il Diavolo non cambia, è lui che cambia te” gli ripeterà più volte Max California), farà piazza pulita di tutti i responsabili.

Ho scoperto 8mm grazie, ehm, a I bellissimi di Rete 4, in una tarda serata di tanti anni fa, e, ancora oggi, molto tempo dopo quella prima visione, è un film capace di trasmettermi un incredibile senso di angoscia e disagio. Tutta la pellicola si regge sul tema della perversione, quei desideri oscuri e macabri spesso nascosti sotto le apparenze di persone normali e perfettamente inserite nella società. Desideri a volte appagati solo visivamente, come nel caso del miliardario Christian, che “voleva avere il film perché poteva” o realizzati sadicamente con mano come nel caso del “protagonista” del film, Machina, un omaccione corpulento che indossa una maschera di pelle sotto la quale si nasconde un uomo di mezza età dalla vita tutt’altro che invidiabile, che uccide semplicemente perché ama farlo. Il tutto a scapito della vita umana di una persona “di cui non frega nulla a nessuno”, come se non fosse mai esistita e non ci fosse nessuno a piangere la sua scomparsa. La sequenza più significativa è proprio quella in cui Welles affronta l’avvocato Longdale, colui che ha commissionato il film: il detective vuole capire perché il miliardario Christian volesse un film del genere, e l’avvocato, con l’espressione più candida del mondo, risponde che Christian lo voleva e basta, per soddisfare un suo capriccio, e che per il detective sarebbe stato meglio fermarsi subito nelle indagini e incassare il compenso, senza cercare di far luce su una morte per lui insignificante. Prima di arrivare a scoprire l’atroce verità, Welles viene risucchiato in una un spirale di degenerazione senza fine, a cui mette fine solo dopo aver ucciso tutte le persone coinvolte e aver dato fuoco a tutto il materiale audiovisivo raccolto durante le indagini, con quella scena in cui abbraccia la figlia di pochi mesi come se volesse ritrovare l’innocenza e la normalità in un mondo che sembra aver perduto valori fondamentali come questi. E, a proposito, proprio di recente ho scoperto che 8mm è stato scritto dallo stesso sceneggiatore di Seven, e condivide infatti con il film di Fincher le tematiche della malvagità umana, molte volte priva di spiegazione, e della corruzione morale della società.

8mm è un film cupo tanto quanto Seven, crudo e spietato nel mostrarti che cose tanto brutte accadono semplicemente perché ci sono persone che le vogliono fare, e forse oggi un film del genere, con i tempi che corrono, sarebbe anche difficile da produrre, soprattutto da parte di certi studios.

Sono convinto che se al posto di Nicolas Cage come protagonista e Joel Schumacher alla regia (il quale, possa riposare in pace, viene principalmente ricordato come responsabile della distruzione del Batman cinematografico, come ricorda Sheldon Cooper in una puntata di The Big Bang Theory) ci fossero stati nomi più quotati, il film non sarebbe rimasto nascosto nella nicchia in cui, purtroppo, si trova ancora oggi, nonostante il mezzo flop in sala all’epoca sia stato mitigato da vendite positive in formato home video. Tra l’altro il cast annovera anche attori di buon livello, fra cui il compianto James “Tony Soprano” Gandolfini, Peter Stormare (che ho visto in non so quanti altri film, ma continuerò sempre ad associarlo al John Abruzzi di Prison Break), un giovane Joaquin Phoenix ancora lontanissimo dal diventare Joker e l’altrettanto giovane Norman Reedus, allora privo della balestra di Daryl Dixon di The Walking Dead.

Purtroppo gli anni successivi hanno visto Cage scendere, come in 8mm, in una lenta spirale, non di perversione ma di guai personali e professionali, costretto a vendere tutti i suoi beni per saldare i debiti, saltando da un matrimonio all’altro e buttando nel secchio dell’umido la sua carriera a causa di film girati solo per il cachet, con quell’Oscar che è sembrato un’eccezione più unica che rara.

E non si è tolto neanche la soddisfazione di recitare nel Superman pensato da Tim Burton. Avrebbe sfogato la sua delusione molti anni dopo, chiamando il figlio Kal-El (Kal-El Coppola Cage, sì, faccio fatica a crederci anch’io).

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata ai detective, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.