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Racconti dall'ospizio #117: World of Warcraft - nel futuro, ogni Leeroy Jenkins sarà famoso per quindici minuti

Quando uscì World of Warcraft io ero già abbastanza sotto con un altro MMORPG e mi sentivo felicemente parte di una nicchia numericamente insignificante, ma assai dedicata. Appena WoW raggiunse gli scaffali di tutto il mondo, dovetti quindi elaborare velocemente diversi sentimenti, tra cui la gelosia, l’invidia, il senso di abbandono e il desiderio di omologarmi e conformarmi con un gioco che, a differenza di tutti gli altri prima di lui, era chiarissimo avrebbe rappresentato uno spartiacque per l’intero settore. Sentivo di doverlo amare per forza.

Nonostante con Final Fantasy XI (l'altro MMORPG di cui sopra) sia stato amore a prima vista, World of Warcraft ebbe un impatto al limite del devastante, sia sul mio tempo dedicato ai giochini, sia in generale al movimento tutto, diventando, oltre che il gioco di riferimento per milioni di persone, anche parte integrante della moderna cultura pop.

Giocare a WoW, al tempo, era un po’ come sedersi a scuola al tavolo dei fighi: era una fra le prime volte che un gioco di fatto così “da nerd” (un MMORPG ambientato in un universo fantasy mutuato da uno strategico. Con gli orchi. E i nani) veniva percepito come figo e di tendenza, non solo all’interno della community dei videogiocatori, ma anche al suo esterno. Negli anni, World of Warcraft e la cultura pop si sono autoalimentati a vicenda, innescando un circolo virtuoso che permetteva a chi giocava a WoW di vedere riferimenti pop al suo interno, e a chi non ci giocava di sapere quantomeno cosa fosse, perché una puntata di South Park o la celebrity di turno ne parlavano in maniera appassionata.

D’altra parte, quando nel corso del tuo ciclo di vita fai sì che vengano creati qualcosa come cento milioni di account, è inevitabile che qualcuno di questi giocatori, poi, non solo si senta “toccato” dall’esperienza di gioco, ma diventi magari qualcuno in grado di influenzare la sottocultura di genere. Le esperienze che i MMORPG offrivano quasi quindici anni fa erano molto diverse rispetto a quelle di adesso, o meglio, era molto diverso tutto il resto. Nei primi anni Duemila, il multiplayer online era decisamente molto meno diffuso, e questo tipo di gioco era (quasi) l’unico a offrire un’esperienza organica e condivisa con milioni di altre persone. Non esistevano PSN o Xbox Live, così come Overwatch, Destiny o League of Legends: se si voleva giocare online in maniera coinvolgente e totalizzante, ci si doveva per forza infilare in un mondo persistente, si chiami Azeroth, Vana’diel o Camelot. 

Nonostante il gioco Blizzard non fosse il più innovativo, o difficile, o graficamente migliore dei competitor dell’epoca, era certamente il primo MMORPG moderno della sua generazione, così moderno e ben fatto non solo da cannibalizzare un genere intero, che per anni si è quasi identificato in un solo esponente, ma anche capace di essere una fra le maggiori cause del declino dei mondi persistenti a canone mensile. D’altra parte, che senso aveva per i giocatori spostarsi quando tutti gli altri pretendenti non riuscivano nemmeno lontanamente ad avere quella dolcezza nella crescita del personaggio, quella mole di contenuti e soprattutto quei server sempre così costantemente e orgogliosamente pieni? La forza di WoW, infatti, il suo più grande pregio, è stata quella di essere riuscito perfettamente a incarnare la filosofia Blizzard del “Non importa quanto complesso o tecnico sia questo genere, mo ti faccio vedere io come si fa un gioco alla portata di tutti, che ci metti due ore a imparare e due anni a mollarlo”. Anche dal punto di vista concettuale, World of Warcraft è stato sempre terribilmente avanti, non tanto relativamente alle meccaniche di gioco, ma quanto alla sua capacità di sapersi reinventare costantemente e riuscire a tamponare con estrema bravura la fisiologica perdita di utenze derivata dal fatto che, beh, parliamo di un gioco del 2004.

Prima ancora di Minecraft, di League of Legends o di tutti quei prodotti che ora vengono chiamati “game as a platform” World of Warcraft ha saputo sfruttare il moto ondivago dei suoi utenti, capitalizzando al massimo le espansioni che servivano come punto di rilancio per il biennio successivo. Non solo: il gioco o, meglio, la sua infrastruttura, ha subito profondi mutamenti negli anni, rinnovandosi per permettere agli utenti di non sanguinare dagli occhi quando avviano il client. WoW, insomma, è ormai una piattaforma, prima ancora che un mondo persistente: un hub capace di rinnovarsi e ammodernarsi, nel quale gli sviluppatori possono costruire storie e avventure avvincenti, permeate di continui riferimenti e inside joke che cementano come poche altre cose una community dedicata ed esigente.

World of Warcraft, mannaggia a lui, non mi ha mai permesso di dedicarmi anima e corpo agli altri MMORPG, perché c’era sempre quel momento dell’anno in cui lo avviavo per farci un giro e mi trovavo invischiato mesi dopo in un raid o in qualche gilda ipercompetitiva, rendendomi conto sempre troppo tardi che a) avevo un sacco di altre cose da fare e b) che non sono fatto per le gilde ipercompetitive. Nel dubbio, comunque, io sia Final Fantasy XI che World of Warcraft continuo a pagarli: tanto, superati i dieci anni, cosa vuoi che siano altri dieci euro al mese?

Questo articolo fa parte della Cover Story su Ready Player One, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.