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Due Torment messi assieme non vendono come mezzo Assassin's Creed, ma chi se ne frega?

Parlare di Planescape: Torment non è semplice. Da un lato c’è il timore reverenziale di far arrabbiare qualche estremista, dall’altro la paura quasi speculare di passare io stesso per uno che recita preghiere alla TSR e predica il Thac0 al prossimo suo.

Il mio rapporto con Planescape: Torment, in realtà, iniziò in modo particolare, quando lo comprai, in versione scatolata in un negozio alla sua uscita, ignoravo cosa fosse. Avevo da poco giocato a Baldur’s Gate e mi aspettavo fondamentalmente un’esperienza analoga. Mi scontrai, come può immaginare chiunque abbia giocato a Planescape: Torment, con un qualcosa che era in realtà profondamente diverso, trovandomi catapultato in un mondo alieno, dalle regole e dall’estetica quasi Gigeriane. Ad affascinarmi era soprattutto il fatto che molti “mostri” che in Baldur’s Gate sarebbero stati solo nemici da uccidere in cambio di PX, in Planescape: Torment si erano tramutati in personaggi veri e propri con cui parlare, e anche il piano morale era notevolmente “spostato” dal classico bene contro male che faceva parte dei giochi con cui avevo avuto esperienza fino a quel momento.

Di fatto, e non ci è voluto molto perché realizzassi la cosa, mi trovavo di fronte a qualcosa che per la prima volta meritava di venire definito “letteratura” in un videogioco, e non è un termine che uso alla leggera. Questo era contemporaneamente un punto di forza ma anche un freno, rendeva il gioco inadatto a partite rapide o poco concentrate ed esigeva di essere affrontato con serietà e concentrazione, cose che non era sempre possibile dedicare a un videogioco e che, almeno all’inizio, mi rese difficile apprezzare la produzione Black Isle fino in fondo.

Cos’è, però, che rendeva unico Planescape: Torment rispetto a ogni altra produzione dell’epoca? Fu una rivoluzione, da molti punti di vista, e questo lo ha reso un prodotto adatto a pochi. Anche il recente remake (e il suo seguito, Torment: Tides of Numenera) sono stati malauguratamente flop commerciali. Innanzitutto, il focus non era assolutamente su un eroe forte e potente in combattimento. Cioè, certo, se uno voleva, poteva creare il proprio personaggio come una macchina da guerra, ma non era questo il focus del gioco. Le parti migliori dell’avventura uscivano in realtà fuori se si sviluppavano le abilità mentali del protagonista (intelligenza e saggezza, senza disdegnare il carisma), che permettevano di sbloccare ricordi importanti e avere più opzioni di dialogo disponibili quando si interagiva coi vari personaggi.

Tutto questo portava in modo naturale a uno stile di gioco più pacifico e improntato all’interpretazione del proprio personaggio, che non sul mero massacro di nemici. I combattimenti, in realtà, non erano neanche questo granché, mancando della profondità tattica che in Baldur’s Gate 1 e 2 era presente, almeno in alcuni casi specifici. Il seguito spirituale di Planescape: Torment si è spinto anche un passo oltre, inserendo dialoghi e interazioni con l’ambiente all’interno dei combattimenti (chiamati in realtà “crisi”, in questo caso), ed è anche possibile terminare una partita completa senza mai trovarsi a dover combattere neanche una volta.

Come è possibile, però, che quello che viene considerato generalmente il miglior gioco di ruolo mai uscito abbia venduto così poco e goda di così poco successo? Si tratta di un controsenso a mio avviso solo in apparenza. Come qualsiasi produzione che mira ad essere più cerebrale che divertente in senso stretto, è normale che non venga fruita quanto altri prodotti, magari meno profondi ma più immediatamente “divertenti”, e nonostante si possa gridare allo scandalo per questo, si tratta di un fenomeno che è comprensibile e, in definitiva, normale. Dopotutto, sono pochi quelli che organizzano una serata tra amici pianificando di guardare Stalker e parlare del flusso di coscienza; molto più probabile che una serata tra amici sia caratterizzata da un film leggero e immediato, patatine fritte e cazzeggio libero.

Che dire, poi, del seguito? In questo caso il discorso si amplia un poco. Quando ho provato Torment: Tides of Numenera, sapevo già cosa aspettarmi e avevo la mentalità adatta ad apprezzarlo, a differenza di quando provai da minorenne Planescape: Torment. Nonostante questa preparazione e l’esperienza maturata nel corso degli anni, il gioco è riuscito comunque a travolgermi con un mondo ancora più alieno e unico… forse troppo alieno e unico. Razze, particolarità culturali... ogni cosa è stata creata togliendo i riferimenti familiari. Non si poteva neanche più parlare di diavoli e demoni, di uomini bestia, di ibridi mezzi demoni, tutte creature che, per quanto esotiche, permettevano in Planescape: Torment di avere un minimo di familiarità o almeno di intuire quale fosse la loro natura.

In Torment: Tides of Numenera, invece, tutto è inedito, ogni mostro, ogni costruzione, ogni persona, ogni riferimento al lore e alla storia del mondo. È praticamente come oltrepassare un portale e finire catapultati in una dimensione parallela, senza alcun riferimento e collegamento al nostro mondo se non la lingua parlata. Si tratta di un’esperienza straniante, che rende estremamente difficile inserirsi nel mondo di gioco ma al tempo stesso crea un costante senso di meraviglia e scoperta. Funziona sempre? Di nuovo… no. Tanto che, come ho accennato, anche il destino di Torment: Tides of Numenera è stato quello di vendere ben poche copie e, a differenza del primo Torment, neanche ha il parziale compenso di essere almeno ritenuto uno fra i migliori giochi di ruolo mai esistiti.

Come lo ritengo, io? Non è una domanda a cui riesco a rispondere sinteticamente. Giocarci lo ho trovato mentalmente usurante, non era un passatempo a cui ci si potesse dedicare continuativamente senza provare una certa stanchezza mentale. Al tempo stesso, mi era impossibile non riconoscere l’unicità di quanto avevo davanti, il fatto di star sfiorando una creatura in qualche modo ancora più estrema nel suo genere del suo progenitore. Non posso quindi, in definitiva, affermare di considerare Torment: Tides of Numenera il miglior gioco che ho provato nel 2017, tantomeno il miglior gioco di ruolo. Ma posso affermare, senza neanche la minima traccia di dubbio, che si tratta del gioco più unico e particolare che ho avuto il privilegio di provare… e forse questo, a modo suo, ha un valore anche superiore.

Questo articolo fa parte della Cover Story "I (nostri) migliori anni del videogioco", che trovate riepilogata a questo indirizzo.