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Perché What Remains of Edith Finch?

Non ho mai creduto troppo nei walking simulator, così altezzosi e poetici da sentirsi migliori di tutti gli altri. Adoro troppo i videogiochi per pensare che la loro potenza narrativa si possa risolvere in esperienze per lo più visive, infarcite di sentimenti o strizzate d’occhio ai cuori degli appassionati.

What Remains of Edith Finch è però indubbiamente proprio un walking simulator, e pure nella peggiore accezione della definizione: in fondo ti chiede di vivere una storia blindatissima e lineare all’interno di una casa e solo raramente ti costringe a qualche impacciato e piuttosto elementare sforzo ludico. Perché allora non lo dimenticherò mai?

Perché è dannatamente onesto, tanto per iniziare. La sua splendida storia la racconta mettendoci la faccia, correndo il rischio di essere giudicato senza lo scudo di più o meno fantasiose interpretazioni, non lascia intravedere il senso della vita attraverso colte citazioni scribacchiate di tanto in tanto nel suo universo. La sua splendida, assurda, storia è sparata in faccia al giocatore, che gli piaccia o meno. Può travolgerti o sfiorarti ma non puoi fingere di non averla vista.

Perché è ingenuamente diretto. Corto, se vogliamo: ti guida in un labirinto senza uscita perché tutto sia perfetto e controllato e non ti lascia a contemplare vuoti silenzi nell’attesa di imbattersi nel paletto successivo. What Remains of Edith Finch getta sul piatto due ore di intrattenimento che qualcuno ha preparato per te, niente da inventare e niente di intimo e personale, perché è sicuro di impressionarti con i suoi cambi di ritmo, le trovate visive e i tocchi di classe che non sei abituato ad aspettarti.

Perché è spudoratamente perfetto, infine, nell’incastrare grafica, sonoro e trama in un’esperienza che è ludica proprio nel punzecchiare tutti i tuoi sensi, come il cinema non potrà mai osare, come i videogiochi raramente si azzardano a fare. La sua triste e commovente storia di speranza non è fatta per ogni palato, nessuna storia lo è mai, ma è innegabile lo sforzo alle sue spalle per non limitarsi a scopiazzare chi ha cominciato con un treno a La Ciotat.

Oppure è solo arrivato al momento giusto, senza ruffianate o sviolinate commoventi, per schiaffeggiare, magari solo per un paio di deliziose ore, la mia già scarsa capacità critica. Ma a chi importa, in fondo?

Questo articolo fa parte della Cover Story "I (nostri) migliori anni del videogioco", che trovate riepilogata a questo indirizzo.