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Tre manifesti a Ebbing, Missouri è bello, ma poteva essere bellissimo

Quasi non faccio in tempo a scrivere un pezzo su quanto siano in grado di inquietarmi i delitti di provincia, che Maderna mi affida - non senza una punta di sadismo - la recensione di Tre manifesti a Ebbing, Missouri, in uscita oggi nella sale italiane. Un film decisamente atipico. Una crime story attorno alla quale gravitano elementi da commedia nera, una manciata di cinema d’inchiesta à la Spotlight, un poco di analisi antropologica su una certa America di provincia rurale e, per non farsi mancare niente, persino un corposo ragionamento sul potere del linguaggio e della dialettica nell’esercizio della giustizia.

Scritto e diretto da Martin McDonagh (In Bruges, Sette psicopatici), regista britannico di origine irlandese i cui fitti trascorsi teatrali emergono soprattutto attraverso il taglio dialogico, Tre manifesti a Ebbing, Missouri ha recentemente fatto incetta di premi e nomination presso diversi festival, brillando in particolare agli ultimi Golden Globe Awards, dove è riuscito a strappare ben quattro tra i titoli più ambìti: Miglior film, Migliore sceneggiatura, Migliore attrice protagonista e Miglior attore non protagonista.

Nata sulla scorta di un viaggio del regista nel profondo sud degli Stati Uniti, la trama del film si innesca con la comparsa di tre enormi manifesti lungo una strada periferica del fittizio comune di Ebbing, che denunciano lo stupro e l’assassinio della giovane Angela Hayes attraverso un inquietante interrogativo: «Stuprata mentre moriva e ancora nessun arresto, come mai, sceriffo Willoughby?».

L’affissione dei cartelli è stata commissionata dalla madre della ragazza, la ruvida Mildred Hayes (interpreta dalla sempre bravissima Frances McDormand), con il beneplacito di Red Welby (Caleb Landry Jones, volto emergente del cinema e della TV recentemente comparso, tra le altre cose, in Get Out, Barry Seal e Twin Peaks), impiegato nella locale agenzia pubblicitaria.

La provocazione di Mildred, chiaramente, sarà tutt’altro che priva di conseguenze, e non farà che esacerbare le tensioni latenti nella piccola comunità, dividendone i membri e attirando l’attenzione delle forze dell’ordine locali, soprattutto dello sceriffo Willoughby (Woody Harrelson) - lo stesso chiamato in causa dai manifesti - e del violento e irascibile agente Dixon (Sam Rockwell).

Nel cast, in un ruolo di contorno, c'è pure Peter Dinklage.

Perlomeno fino a metà, il film è davvero una bomba: formalmente impeccabile, con un cast in forma smagliante, nel quale a brillare su tutti - a prescindere dai Golden Globe - è Woody Harrelson, che riesce a dare fiato a un personaggio complesso, estremamente umano e capace, nonostante le apparenze, di entrare in sintonia con lo spettatore nel giro di un paio di battute. Il suo, probabilmente, è anche uno fra i personaggi scritti meglio del film, secondo forse solo al Dixon di Rockwell, con il quale condivide, oltre a un rapporto tanto complicato quanto tenero, una parabola di crescita e svelamento che pian piano smonta fino al limite del ribaltamento alcuni fra i luoghi comuni affibbiati agli “sbirri razzisti del sud” (del resto, il punto di vista è pur sempre quello di un cineasta britannico).

Il film, in questo senso, se la gioca molto bene, spingendo inizialmente lo spettatore dalla parte di Mildred, per poi ruotargli intorno fino a mostrare la complessità, i controsensi e le ambiguità che comporta l’esercizio della giustizia in una piccola comunità. Eticamente, McDonagh si schiera ma non giudica e, anzi, riesce a passare con una certa agilità dal registro drammatico a quello sarcastico, anche grazie a dei dialoghi particolarmente efficaci.

Senza nulla togliere all'ottima prestazione di Frances McDormand e al resto del cast, Woody Harrelson e Sam Rockwell si mangiano il film.

A livello di sottotesto, invece, le scritte sui manifesti sono una vera e propria rivelazione di intenti: evidentemente il regista britannico non intende solo portare un’indagine sui limiti e sulla liceità della giustizia, ma anche una riflessione sull’importanza della retorica e del linguaggio per la costruzione del diritto. Le parole, i giochi di parole e le diatribe verbali, nel film, sono veramente ovunque.

Gran parte dei conflitti e delle situazione problematiche in scena viene gestita attraverso la dialettica (non a caso, lo sceriffo insiste spesso sull’importanza delle parole nel corso di un’indagine), che nei limiti del possibile riesce ad arginare la rabbia di alcuni personaggi sempre sul punto di deflagare. Poi, per carità, non sempre: le esplosioni emotive nel corso del film ci sono eccome, e sono accompagnate da manifestazioni di cruda violenza (leggi: pugni, calci & sangue).

Come conseguenza diretta dei ragionamenti sulla dialettica, nella sfera d’indagine del film finiscono anche la relatività dei contesti e la sua influenza sui comportamenti umani e sulla morale. In certi momenti ho avuto addirittura l’impressione che la logica spiccia e la decontestualizzazione, in una comunità razzista e violenta come pare essere quella di Ebbing (e anche qui: più per retaggio del recente passato che per altro), siano spesso gli unici strumenti a disposizione dei personaggi per esprimere, e in qualche modo “giustificare”, le proprie debolezze e la propria umanità, all’interno di un contesto che sembra fare di tutto per negarle (in questo senso - ma forse sovrainterpreto io - ho letto nel film una velata critica all’amministrazione Trump).

Le domande incise sui manifesti rimandano al sottotesto "linguistico" del film.

Tre manifesti a Ebbing, Missouri è un film ricco, denso. Un film che mette molta carne al fuoco e che, come succede qualche volta in questi casi, non riesce sempre a gestirla come si deve. Soprattutto, nel corso della seconda parte, perde un po’ la concentrazione e finisce a tratti con l’incepparsi, non riuscendo a bilanciare tutti i suoi propositi. Così, se all’inizio tutta la faccenda della dialettica riusciva a restare sotto la pelle della storia, filtrando solo di tanto in tanto, con l’avanzare del film diventa sempre più esplicita, a tratti persino ingombrante, finendo col prevalere su tutto il resto e raffreddando un po’ la carica emotiva.

Per certi versi, siamo davanti a una situazione simile al “passaggio di testimone tra generazioni” presente in Star Wars: Gli ultimi Jedi, motivo che il film sbatte continuamente in faccia allo spettatore, senza preoccuparsi di nasconderlo almeno un po’. Tuttavia, se nell’ottica di Star Wars si tratta di un peccato veniale, dalla dimensione tutto sommato realistica di Tre manifesti a Ebbing, Missouri ci si aspetterebbe una maggiore sottigliezza (sarà meglio specificare che non ne faccio una questione di genere, ma di tono; ché di questi tempi la gente, signora mia).

Anche la trama finisce alla lunga con lo sbilanciarsi un po’. Da un certo punto in avanti - diciamo attorno ai suoi tre quarti - il film “esagera”; e se tuttavia alcuni personaggi, da questa esagerazione guadagnano pure qualcosa (Dixon su tutti), altri, come la stessa Mildred, finiscono per appiattirsi o sfiorare la dimensione caricaturale. Stesso discorso per i dialoghi: se nel corso della prima parte le battute colorite, i “botta e risposta” serrati e i trucchetti retorici funzionano proprio perché sostenuti da solide fondamenta di scrittura, poco a poco finiscono per svelare la propria natura eccessivamente artificiosa, guastando un po’ l’illusione.

Nell’insieme, tutti questi problemi distraggono un po’ lo spettatore dal punto di partenza del film: il dramma di una madre brutalmente privata della figlia e il conseguente ruolo della giustizia.

Tuttavia, nonostante Tre manifesti a Ebbing, Missouri non riesca a imbroccare la piena quadratura, resta comunque un film che merita di essere visto in virtù della sua messa in scena, della prestazione di tutto il cast, ma soprattutto della particolare atmosfera che riesce a costruire e del ritratto tutto sommato credibile e vivo di una piccola comunità dell’America di provincia. Insomma, Frechete! con qualche riserva.

Ho visto Tre manifesti a Ebbing, Missouri un paio di giorni fa, in lingua italiana, grazie a una proiezione in anteprima. Come ho già detto, ne ho apprezzato moltissimo il cast (fermo restando che c’è il solito problema del doppiaggio eccetera eccetera), l’innesco, gli intenti e gran parte dello svolgimento. Se Martin McDonagh fosse riuscito a mantenere fino alla fine l’equilibrio mostrato nella prima parte, probabilmente ci sarebbe scappato il filmone. Allo stato delle cose, Tre manifesti a Ebbing, Missouri resta “soltanto” un buon film (ma insomma, buttalo via).