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Locarno è il mio Sundance - Appunti sparsi dal 70° Festival del film di Locarno

Quest’anno il Festival del film di Locarno ha tagliato il traguardo della settantesima edizione. Settanta edizioni per una roba partita piccola piccola nel 1946, organizzata in pochissimo tempo e con appena una manciata di film a cartellone. Eppure, come capita alle volte, quella roba piccola piccola è stata cresciuta amorevolmente - ché gli Svizzeri, quando ci si mettono – fino a diventare uno dei festival più importanti d’Europa a fianco di quelli più blasonati di Venezia, Cannes e Berlino, e che nel corso degli anni ha dato spazio a registi del calibro di Paul Verhoeven, Milos Forman, Marco Bellocchio, Mike Leigh, Atom Egoyan, Jim Jarmusch, Abbas Kiarostami, o Kim Ki-Duk (giusto per tirare giù una lista di nomi da Wikipedia).

Nel mio piccolo credo di essere riuscito a seguire perlomeno le ultime venti edizioni del festival, tra alti e bassi, e a tutt’oggi quella di Locarno resta probabilmente la rassegna a cui sono più affezionato (oddio, non che ne giri poi molte, ma è tanto per dire), al punto che è diventata una specie di tradizione estiva. Ci sono affezionato, a Locarno, prima di tutto per ragioni “anagrafiche”: credo di aver iniziato a bazzicare lo schermo di Piazza Grande (che con i suoi trecentosessantaquattro metri quadrati è ancora uno dei più grandi d’Europa) addirittura ai tempi del liceo - quando frequentavo i cineforum per darmi un tono - alloggiando sconsideratamente in un campeggio svizzero costoso come un albergo medio italiano, in un’estate particolarmente piovosa. Oltre ai temporali, di quella prima volta a Locarno ricordo un sacco di film cinesi e giapponesi, i tentativi di imbucarmi alle feste del Grand Hotel vestito in dei modi allucinanti, Valeria Golino con addosso una maglietta con sopra stampata la faccia di Valeria Golino (mi pare che fosse in zona per il film Come due coccodrilli di Giacomo Campiotti).

Vestito in dei modi allucinanti tipo così

Ricordo pure che ogni sera, dopo le ultime proiezioni, con un paio di amici avevamo preso l’assurda abitudine di pedinare Valerio Mastandrea lungo le vie del centro, convinti di fare brutto. Onestamente non credo si sia mai preso paura, ma era pur sempre un modo per tirare tardi.

Piazza Grande

Comunque, col fatto che da casa mia a Locarno ci vuole appena un’oretta di macchina/treno, ho continuato a passare dal festival anche per tutti gli anni dell’università, senza contare che da studente avevo pure modo di recuperare il pass globale totale per tutte le proiezioni a un prezzo ragionevolmente basso. Pass che veniva spremuto al massimo per ottimizzare l’impresa, tipo biglietto dell’Interrail: all’epoca ero in grado di stare dietro a programmi così fitti e nazisti che adesso non riuscirei a gestire nemmeno per metà.

Negli anni, oltre a guardarmi un sacco di film di registi che probabilmente non avrei mai conosciuto altrimenti (uno su tutti Hitoshi Matsumoto, autore dei bellissimi Big Man Japan e Symbol, che potete trovare gratis su VVVVID seguendo il link agevolati), a Locarno ho visto per la prima volta anche cose più popolari come Tutti pazzi per Mary, Small Soldiers, Super 8 e Drive; ho assistito alla consegna del Pardo alla carriera a Harrison Ford (non so se era di giornata storta, ma pareva Bossi dopo l’ictus); ho visto salire sul palco il compianto Christopher Lee, all’epoca splendido novantenne. Ho scoperto l’inclinazione dei registi svizzeri per gli horror scadenti e piccantelli (Sennentuntschi); ho avuto la possibilità di partecipare alle conferenze stampa dedicate a Isao Takahata e Yoshiyuki Tomino e di chiacchierare - tramite interprete - con Hiroyuki Imaishi e Kazuki Nakashima dello studio Gainax, che presentavano Tengen Toppa Gurren Lagann in seno alla rassegna Manga Impact coordinata da Carlo Chatrian (attuale direttore del festival), e ho pure assistito a delle splendide lezioni di cinema tenute da Werner Herzog e da Howard Shore.

Di tutti direttori artistici che nel corso degli anni si sono messi al timone del festival, ho fatto in tempo a incrociare Marco Müller (poi passato a Venezia, sicuramente quello a cui sono più affezionato e a cui devo la scoperta di un certo cinema cinese), Irene Bignardi, Frédéric Maire, Olivier Père e Carlo Chatrian, e in qualche modo sono riuscito a percepire un po’ l’impronta di ciascuno, per quanto la macchina-festival sia comunque un gigantesco lavoro d’equipe. A essere rimasta sempre la stessa, a prescindere dal carattere di ciascun direttore, è quell’atmosfera indipendente e di scoperta. Pur piazzando ogni anno almeno un paio di anteprime grosse, Il Festival di Locarno non ha né gli strumenti né la vocazione per competere col luccichio di Cannes o Venezia. Per questa e altre ragioni, e facendo di necessità virtù, ha scelto di indirizzarsi verso gli esordienti, verso il cinema indipendente e meno visibile. Questa vocazione emerge, oltre che dalla competizione principale, dallo spazio dato a sezioni come “Cineasti del presente”, dedicata alle opere prime e seconde di autori emergenti; “Pardi di domani”, che premia cortometraggi o mediometraggi di esordienti o studenti delle scuole di cinema; “Signs of Life”, dedicata alle intersezioni tra linguaggio cinematografico e nuove forme di espressione, e alle nuove frontiere del cinema; “Open Doors”, che sostiene - anche economicamente - le produzioni di autori indipendenti provenienti dalle zone meno avvantaggiate del Sud e dell’Est del mondo.

A livello logistico il festival è completamente a portata di mano: Locarno è una cittadina deliziosa incastrata tra lago e montagne, e a piedi la si gira in una mezz’oretta; tutte le sale sono piuttosto vicini tra loro, e con un minimo di organizzazione si può saltare da un film all’altro senza troppi sbattimenti, senza contare che le poche sale relativamente decentrate sono servite da un servizio gratuito di bus navetta (il PardoBus).

Il PardoBus così come lo percepisco io

Questa atmosfera così raccolta e rilassata (passeggiando in città è possibile incrociare attori o registi, e se capita scambiarci pure due parole) mescolata al taglio indipendente concorre a fare del festival una sorta di Sundance Film Festival europeo, e non è un caso, in effetti, che molto spesso i film premiati o proiettati al Sundance passino pure da Locarno.

Venendo all’edizione 2017, di seguito potrete trovare i miei appunti/commenti a tutti i film che sono riuscito a infilare (à la Letterboxd), divisi in ordine di visione tra le robe che mi sono piaciute di più, quelle che mi hanno convinto fino a un certo punto e quelle che proprio boh. Ho escluso dal diario i film delle retrospettive e i cortometraggi, concentrandomi sulle opere inedite e proposte nelle sezioni principali.

Nel complesso ho trovato l’edizione di quest’anno piuttosto riuscita, con una selezione di opere varia e nel complesso di buona qualità, e con una fitta presenza di documentari (a me piacciono un sacco, quindi bene). Purtroppo non sono riuscito a guardare tutti i film in concorso, soprattutto ho il rimorso di aver bucato Madame Hyde di Serge Bozon, che ha meritato alla Huppert il Pardo per la migliore interpretazione femminile, e il documentario The Reagan Show. Però, insomma, credo di essermi passato abbastanza roba per farmi un’idea sul taglio dell’edizione, e soprattutto per maturare la sensazione che il direttore Carlo Chatrian sia finalmente uscito dalla fase di rodaggio (ammetto che al suo esordio non mi aveva convinto) e abbia trovato un punto di equilibrio: bene così.

La giuria del 70° Festival di Locarno presieduta da Olivier Assayas (primo da sinistra)

Tutto il “Frechete!” di Locarno 2017 secondo me

Beach Rats (Cineasti del presente). Vincitore del premio alla miglior regia all’ultimo Sundance Film festival, il film è il secondo lungometraggio diretto dalla regista americana Eliza Hittman, ed è una della robe più belline che ho visto qui a Locarno. La storia gira attorno a un ragazzo di Brooklyn, Frankie - interpretato dal bravissimo Harris Dickinson - che cerca di gestire e definire la sua omosessualità in un ambiente sociale piuttosto ostile. Ben presentato, ben recitato, delicato e realistico nella maniera in cui affronta i temi dell’adolescenza, del lutto e del rapporto con la famiglia.

Lola Pater (Piazza Grande). Il cineasta parigino Nadir Moknèche dirige una strepitosa Fanny Ardant nei panni di Lola, una transessuale impegnata a recuperare il rapporto con il figlio avuto da un precedente rapporto sentimentale. Nonostante un eccesso di melodramma che sbilancia un poco la seconda parte del film (per quanto coerente all’attitudine “teatrale” del personaggio interpreto della Ardant), Lola Pater riesce a gestire molto bene un racconto complesso e senz’altro singolare.

Țara moartă (Signs of Life). “Messo assieme” dal regista rumeno Radu Jude, il film è un sorta di documentario-saggio che propone uno slideshow di fotografie della Romania tra gli anni Trenta e Quaranta “commentato” attraverso il diario di un medico ebreo che racconta, negli stessi anni, l’ascesa dell’antisemitismo e delle persecuzioni. Immagini e testo parlato sono tenuti assieme dalle date, e molto spesso procedono in dissonanza. Eppure a livello di atmosfera il mix funziona, e in qualche modo riesce a evocare perfettamente il clima della Romania di quegli anni. Un documentario basato su una buona idea e realizzato benissimo: dubito che passerà mai dalle nostre parti, ma nel caso vale davvero la pena.

Lola Pater.

Cho-haeng (Cineasti del presente). Secondo lungometraggio del cineasta sud-coreano Kim Dae-hwan, che si porta a casa il premio per il miglior regista emergente, il film racconta il viaggio in macchina di una coppia di giovani (un insegnante e una redattrice addetta ai notiziari) da Seoul fino alla località di mare di Samcheok in occasione di una ricorrenza familiare. E lo racconta in un modo bellissimo, sia a livello visivo che per per quanto riguarda la gestione dei personaggi e dei loro sentimenti. Cho-haen è un film intimo, che scalda il cuore e che riesce a disegnare - bene - rapporti umani complessi con pochi scambi e battute. Per quel che vale, è stato il mio film preferito del festival in senso assoluto.

Mrs. Fang (Concorso internazionale). Documentario bello ma pesantissimo dedicato agli ultimi giorni di vita di Fang Xiuying, un’anziana contadina del Fujian afflitta dal morbo di Alzheimer. Il regista cinese Wang Bing, affermato e apprezzato documentarista in patria, parte dal dramma della donna - che giace sempre a letto in stato di semi incoscienza – per mostrare tutto ciò che avviene attorno al capezzale: la commozione dei parenti che piano piano lascia spazio a discorsi di natura pratica, quotidiana, addirittura banale. La contadina morente diventa un catalizzatore che consente allo spettatore di accedere a quella bolla di routine a tempo determinato generata dall’attesa di una morte inevitabile, a quel passaggio dallo straordinario all’ordinario evidentemente necessario per gestire situazioni del genere. Giorno dopo giorno le persone si abituano alla presenza della morte, guardano la televisione, mangiano, chiacchierano, “esistono” nonostante la circostanza. La regia è realistica e estremamente asciutta; la mano di Bing è quasi invisibile e si esprime sopratutto attraverso le scelte di fotografia, alternando lo spazio chiuso e claustrofobico del capezzale a spazi esterni aperti, colorati e pieni di vita. Mrs. Fang si è aggiudicato il Pardo d’oro, il maggiore riconoscimento del Festival di Locarno. Sicuramente è stato favorito da quel “coefficiente di sfiga” tanto caro alle giurie dei festival europei, ma è comunque un gran bel film.

Cho-haeng

Easy (Cineasti del presente). Incredibile: un road movie a tappe realizzato in Italia e fatto come si deve. Il regista Andrea Magnani, attraverso uno splendido cast capeggiato da Nicola Nocella racconta l’avventura di Isidoro, detto Easy, un ex pilota di go-kart ingrassato e decaduto incaricato dal fratello Filo (Libero De Rienzo) di trasportare una bara dall’Italia ai Carpazi. Questo innesco diventa il pretesto per il classico viaggio a tappe che metaforizza il ciclo di morte e rinascita, ma tutta la faccenda viene gestita con leggerezza agrodolce, con la giusta dose di malinconia alternata a qualche risata affettuosa (a livello di tono mi ha ricordato le robe migliori di Sergio Citti). Un gioiellino.

En el séptimo día (Concorso internazionale). Diretto dal regista americano Jim McKay, attivo soprattutto nel giro delle serie TV (ha a curriculum diversi episodi di The Wire e di Mr. Robot), En el séptimo día è un film che non manca di nulla: umorismo, un cast che fa la sua e un buon occhio. È una commedia agrodolce di ambientazione proletaria con un pizzico di “kitchen sink drama”, di quelle che ti aspetteresti da un regista inglese, anche perché parla di calcio: il giovane José è un messicano emigrato a Brooklyn che si fa il mazzo consegnando cibo a domicilio per sei giorni a settimana, mentre la domenica esprime il suo talento calcistico giocando in un campionato locale. I guai inizieranno a manifestarsi quando il suo capo gli imporrà di lavorare anche la domenica.

Easy

Did You Wonder Who Fired the Gun? (Concorso internazionale). Documentario/dramma ambientato nell’Alabama più buia e razzista, il film è di fatto un’indagine autobiografica e fortemente politica del regista Travis Wilkerson, che torna nei luoghi della sua infanzia per venire a capo delle brutte voci che circolano sul suo bisnonno e sul presunto coinvolgimento dell’avo nell’omicidio di un afroamericano. Nel corso della sua inchiesta il regista finisce per cozzare con la resistenza dei parenti e della comunità, che per anni hanno seppellito l’intera faccenda sotto un tabù. L’impianto registico del film è di taglio principalmente impressionista, con una manipolazione del colore che costruisce un’atmosfera guasta e malsana.

Atomica Bionda (Piazza Grande). Una spy-story d’azione completamente costruita attorno a una Charlize Theron splendida e carismatica, diretta da David Leitch (co-autore del primo John Wick) e ambientata nella Berlino del 1989 a ridosso della caduta del muro. Le musiche, le scenografie e l’iconografia generale del film sono forse un po’ troppo spinte, ma non si può dire che non funzionino. Le scene d’azione mi sono parse un pelo po’ più verosimili rispetto alle iperboli di John Wick, e conseguentemente mero spettacolari, ma vengono riempite dalla straordinaria presenza scenica della Theron. Bene anche John Goodman e Toby Jones; meno bene James McAvoy, che con quella faccia da stronzetto non mi è parso adatto alla parte della spia cazzuta.

❤❤❤

I “Vai a sapere!” di Locarno 2017 secondo me

Lucky (Concorso internazionale). Primo film diretto dal caratterista John Carroll Lynch (Zodiac, American Horror Story, The Americans, The Walking Dead e dozzine di altre apparizioni tra cinema e televisione), il film parla di morte e invecchiamento attraverso il punto di vista del novantenne Lucky, interpretato dal bravissimo Harry Dean Stanton, attore feticcio di David Lynch che pure recita nel film divagando sulla sua tartaruga. Tutto il cast è pieno zeppo di facce più o meno note del cinema americano, e vorrebbe in alcune sequenze (in primis quella con Tom Skerritt che interpreta una sorta di “Viper” invecchiato) buttare là anche una riflessione metatestuale sul ruolo dell’attore caratterista. Purtroppo il film finisce per essere un po’ troppo banale, semplicistico e accomodante nel suo filosofeggiare, anche se resta pur sempre una roba gradevole.

Person to Person (Cineasti del presente). Classico film “medio”, carino e che non fa male a nessuno, ma che alla fine non ti lascia in tasca granché. Dustin Guy Defa si diverte a incrociare storie e personaggi lungo una giornata a New York, una roba alla Paul Auster dove alcuni frammenti funzionano meglio di altri: quello del collezionista di dischi, per dire, è moscetto, ma in compenso tutta la parte dei ragazzini è fresca e riuscita (e c’è dentro pure Olivia Luccardi, la tipetta occhialuta e carinissima di It Follows). Ah, Michael Cera nella parte del giornalista sfigato mi ha fatto ridere molto.

Person to person.

Abschied von den Eltern (Cineasti del presente). Ennesimo documentario drammatizzato (Madonna, ma quanto tirano a Locarno i documentari drammatizzati, quest’anno?), stavolta dedicato all’infanzia e a all’adolescenza dello scrittore di radici ebraiche Peter Weiss, trascorse nella Germania nazista. La tematica è vicina a quella di Țara moartă , ma diversamente da Radu Jude, la regista Astrid Johanna Ofner non riesce a conciliare la dimensione storica con quella intima e individuale, consegnando un’opera un po’ indecisa.

The Big Sick (Piazza Grande). Altro film proveniente dalle fila del Sundance Film Festival, The Big Sick, diretto dall’autore televisivo Michael Showalter (Wet Hot American Summer: First Day of Camp, Search Party) e basato su una storia vera, racconta della relazione tra Kumail, tassista e aspirante comico di origini pachistane, e la studentessa americana Emily. Il film parte con la solita faccenda dello scontro culturale, ma a un certo punto prende una piega inaspettata - e non banale - in direzione del dramma familiare, gettando molta carne al fuoco ma riuscendo a mantenere tutto in equilibrio per tre quarti della sua durata. Purtroppo, quando la faccenda sembra sul punto di sciogliersi, la storia sceglie di proseguire, e il film finisce un po’ come certi sabati sera che si arriva alle due di notte soddisfatti, si andrebbe pure a casa, ma poi salta fuori l'amico frizzantino che obbliga tutti a trascinare la serata fino all’alba.

The Big Sick.

Gli asteroidi (Concorso internazionale). Si tratta del primo lungometraggio di fiction girato da Germano Maccioni, giovane autore di cui avevo apprezzato moltissimo il documentario Fedele alla Linea, dedicato a Giovanni Lindo Ferretti e per nulla banale a livello di scelte registiche. Anche Gli asteroidi è un film di buona qualità, girato da uno che è perfettamente padrone del linguaggio cinematografico e che riesce a parlare in maniera non scontata dell’impatto della crisi sulla provincia italiana attraverso un gruppo di ragazzini che si barcamenano tra amori, dialoghi filosofeggianti e rapine. La caratterizzazione dei personaggi a livello di scrittura non è banale, ma purtroppo viene compromessa da una recitazione complessiva che va dall’appena sufficiente all’amatoriale. Questo problema di cast, forse legato a vincoli produttivi, rompe un film che lascia comunque intuire le capacità del regista.

Gli “RCM” di Locarno 2017 secondo me:

Ta Peau si lisse (Concorso internazionale). Il documentario diretto dal canadese Denis Côté prova a raccontare il mondo del culturismo e degli “omaccioni grossi e forzuti” partendo - come ha tenuto a specificare il regista - dal loro rapporto con il corpo. L’idea sulla carta sarebbe anche interessante, e infatti mi sono presentato alla prima credendoci fortissimo, ma purtroppo il film resta quasi sempre in superficie senza andare a parare da nessuna parte.

Surbiles (Sign of Life). Pure in questo volevo crederci molto: voglio dire, quando ti presentano un film/documentario dedicato a delle donne-vampiro della tradizione sarda (le surbiles del titolo) che combattono tra di loro, le aspettative schizzano alle stelle. Purtroppo mi sono trovato davanti a un pasticcio incomprensibile che si dibatte tra il documentario e la fiction senza approfondire nessuna dimensione, girato in maniera sgrammaticata e recitato peggio (anni fa ‘sta roba sarebbe finita su Mai dire TV). Tra l’altro, se il film fosse l’opera prima di un giovane autore senza mezzi, potrei anche capire, ma stando al sito del festival il regista Giovanni Columbu sarebbe pure un documentarista veterano della RAI; e insomma, ho visto porno amatoriali girati con più mestiere.

Surbiles.

Amori che non sanno stare al mondo (Piazza Grande). Nel film della Comencini due quarantenni, lui e lei, si amano, si mollano, ma soprattutto urlano. Amori che non sanno stare al mondo è un film isterico, pacchiano e dallo svolgimento sconclusionato. Peccato, perché un paio di scene non sono male e, anzi, dipingono pure bene certi momenti della vita di coppia, ma purtroppo vengono bruciate da altre davvero pacchianissime (l’inseguimento notturno è degno del peggior Muccino).

Il Monte delle Formiche (Cineasti del presente). Tra tutti i documentari che ho visto qua a Locarno, questo è probabilmente il peggiore. Girato dal saggista e docente di cinema Riccardo Palladino (che evidentemente se la mena tantissimo), prende una roba anche interessante nella sua singolarità – gli sciami di formiche alate che da secoli ogni inizio settembre volano a frotte sul monte eponimo coprendo il cielo – ma la spreca in un filosofeggiare un po’ vuoto che ripete e stiracchia il concetto del rapporto tra uomo e natura, senza approfondirlo mai.

Qing Ting zhi yan (Concorso internazionale). Questo è difficile. L’idea di partenza sulla carta era davvero buona: costruire una narrazione rimaneggiando materiale autentico recuperato da telecamere di sorveglianza. Il regista, nonché artista e accademico, Xu Bing, ha visionato ore e ore di filmati, lavorando di montaggio e aggiungendo - e soprattutto sincronizzando - i dialoghi in postproduzione. Insomma, una roba interessantissima ma evidentemente troppo difficile da gestire, e che finisce col consegnare una storia astrusa, poco leggibile (parlo proprio in termini di linguaggio), che non fa altro che mettere a disagio lo spettatore. Forse l’esperimento avrebbe funzionato meglio con delle scelte narrative meno complicate, ma il regista ha evidentemente preferito spingere al massimo la sua macchina, senza compromessi, finendo con l’uscire completamente di strada. Peccato, perché c’era del buono.

Sashishi deda (Cineasti del presente). Il film nelle intenzioni della giovane cineasta georgiana Ana Urushadze vorrebbe essere una riflessione in chiave onirica e metatestuale sul rapporto tra arte e artista, ma in verità è una roba proprio bruttina, smarmellata, girata male e recitata peggio. Peccato.