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Racconti dall'ospizio #42: Il manuale di SimTower

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Elevator Pitch

Yoot Saito: game designer, chiarissimo psicopatico e autore di uno fra i brani più significativi della mia vita: l'introduzione di SimTower. Una piccola cosa per lui, e lo so perché gliel'ho proprio chiesto (ci torneremo), ma che ha finito per intrecciarsi a un po’ tutta la mia storia personale. Parliamone.

Yoot's tower

Yutaka "Yoot" Saito, classe 1962. Decide di diventare game designer dopo aver scoperto SimCity per Mac all'università. Il suo primo titolo commerciale è The Tower, poi ripubblicato da Maxis come SimTower.

Il giocatore ha il compito di gestire un moderno grattacielo a uso misto, costruendo e posizionando ristoranti, appartamenti, uffici, camere d'albergo e negozi.

Per evitare che gli inquilini se ne vadano, il giocatore deve soddisfare necessità sempre più complesse come centri medici, parcheggi, strutture per il riciclaggio, un buon sistema di pulizie e - soprattutto - un'efficace rete di ascensori e scale mobili.

Dato lo spunto iniziale, non stupisce che SimTower sia prima di tutto una simulazione di ascensori, con opzioni per decidere a che piano devono sostare le cabine, quali piani servire per primi e come modificare il tutto nelle varie ore del giorno e nei vari giorni della settimana.

Torre della Lanterna

Ho un rapporto complicato con le Cose, un po’ come tutti noi Dellepiane.

C'entrano radici familiari nella Genova operaia dell'Italsider e dei moli, il bagaglio culturale di quelle tre sillabe Ge-no-va (che giustamente si riducono a due per gli autoctoni: Ze-na) e soprattutto l'aver campato comprando e vendendo Cose.

I miei erano giocattolai, perciò per casa nostra è passata una ricca collezione di videogiochi, dall'Atari 2600 al ColecoVision, dal Master System al NES (in una sorta di jukebox esclusivo Mattel che oggi deve valere una fortuna), dal Megadrive al Super NES.

Dico "passata" proprio perché i giochi non erano i nostri: si aprivano, si provavano, poi si richiudevano con cura e si vendevano ("Così sappiamo cosa consigliare").

Erano altri tempi e il concetto di collezionismo legato ai videogiochi era non solo di là da venire, ma quasi incomprensibile. Sia come sia, il tutto avveniva con distacco e professionalità, almeno fino a SimCity.

Contro il SimCity per SNES, con il suo irresistibile tutorial e la grafica pupazzona a fare da pusher per il re dei loop ludo-narrativi ("Una volta qui era tutta campagna"), anche mio padre ha dovuto capitolare.

Qualche partitella all'inizio ("Ragazzi, passate la manetta"), primi segni di ossessione ("Guarda quella fabbrica dietro lo svincolo, pare SimCity") e poi nel gorgo, fino all'epilogo: partita in mutande alle due del mattino. Mamma ha detto basta, papà ha obbedito.

Unico guizzo: comprare SimTower insieme al nuovo PC di casa. Il primo e unico videogioco comprato e non venduto.

Rompere le scatole

Ho giocato parecchio a SimTower, bene o male è un SimCity verticale e su quel fronte sono nettamente figlio di mio padre. Purtroppo, crea la sua difficoltà in modo truffaldino, dandoti un numero di ascensori insufficiente. Per un po’ ti diverti anche a trovare stratagemmi per aggirare il problema, ma poi ti stanca, t’annoia e tanti cari saluti.

Ma SimTower non t’invita solo ad “aprire le scatole”, ti mostra come farlo: l’ultimo capitolo del manuale spiega l’algoritmo di funzionamento del gioco stesso. Come viene calcolato lo stress degli inquilini, la valutazione dei ristoranti e così via. Un estratto del design del gioco, commentato passo dopo passo.

Nulla di trascendentale, ovvio, ma un nerd non ha bisogno di tanti incoraggiamenti. E dai primi cheat mode si passa ai .WAD di Doom e da lì (non si capisce ancora bene come) si finisce per due anni tester in Rockstar Games. E lì scopri che - ad esempio - riverniciare macchine a oltranza “mangiando” la memoria del gioco fino a farlo sparire non è solo uno spasso, ma ti vale il tuo primo stipendio da “adulto”. Grazie, Yoot.

Tokyo Tower

Il primo giorno a Tokyo non osavo lasciare il mio isolato. Davvero.

Rincoglionimento da jet lag, echi di Gialappa’s sul Giappone strano e incomprensibile, ma anche la giusta apprensione: da domani diventi un traduttore di Square Enix, ci sta un po’ di nervosismo e di euforia prima del tuffo.

The Tower II (1998), verrà portato in occidente da Sega come Yoot Tower.

Ma questo mondo lo conosci già, perché è quello di Saito. Tutto quello che da genovese sembrava una forzatura in nome del gameplay diventa reale e quotidiano.

Abbiamo la riunione alle nove e ovviamente non c’è un ascensore libero a pagarlo oro.

Ramen o soba per pranzo? Andiamo al cinquantesimo con l’ascensore espresso o andiamo al piano interrato? No, guarda, mangio a casa che l’agenzia questo mese non mi paga, continuo giù fino alla metro.

E così via fino ai due tragitti in ascensore più lunghi. I cento metri scavati nella roccia della cascata Kegon, DLC di Tower 2 e prima gita mano nella mano con Kazumi. E poi l’ascensore per la cappella del KKR Hotel di Kanazawa, tre piani che valgono i cento del gioco. Kazumi Dellepiane.

I giochi migliori non hanno bisogno di manuali

“Forse è meglio se dormi nel letto grande, non ti facevo così alto”.

Sai che è l’anno 2017 quando l’unico vero ostacolo per condividere un appartamento dall’altro lato del mondo è la logistica di non essersi mai visti di persona.

È la mia prima volta alla Game Developers Conference di San Francisco, un po’ per lavoro e un po’ perché - a forza di sentire gli outcastiani che ne parlano commossi anno dopo anno - uno prima valuta come bucargli questa fiera di merda e poi si rassegna a raggiungerli.

E manco a farlo apposta, quest’anno c’è proprio Yoot Saito, tornato nell’industry dopo cinque anni di assenza “per questioni molto personali”.

E allora aspetti la fine della sua presentazione, ti metti in fila al microfono e gli domandi un po’ titubante di quel famoso manuale e del perché l’abbia scritto in quel modo così curioso. Almeno la domanda è secca, professionale.

E la risposta è quella là sopra, chiara anche fra le pause alla Celentano. E i bisticci con l’inglese di Saito. E la mia mano pesante nel tradurla.

Perché un buon gioco non ha bisogno di manuali, deve parlare da sé come ogni opera d’autore. Vivere nell’esperienza di chi la incontra, seguire cammini nuovi e inattesi.

Ma è bello lasciare anche una pista. Chissà che qualcuno non la segua e ci trovi una carriera e un po’ di felicità. Vai a sapere.

Per chi fosse curioso, qui è possibile scaricare il manuale del gioco e qui è possibile giocarci direttamente via browser. È invecchiato malisssimo.

Il video del post-mortem di Saito alla GDC. Contrariamente a quanto sostengono alcuni, la pronuncia inglese di Alain emerge impeccabile.