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Post Mortem #23: Deus Ex e il trauma di avere Bruce Sterling come master di D&D

Una rubrica in cui vi raccontiamo i post mortem dei principali videogiochi, vale a dire le considerazioni a posteriori, da parte dei membri del team di sviluppo, su cosa abbia funzionato e cosa no durante il lungo processo che porta alla nascita di un videogioco.

Se dovessi individuare una singolarità in tutta la mia storia di videogiocatore, il momento esatto in cui tutto sarebbe cambiato per sempre, per me quel momento sarebbe il finale di Deus Ex. "If there were no God, it would be necessary to invent him." recitava la citazione di Voltaire a schermo, mentre si dipanavano gli attimi finali di un’esperienza che mi aveva portato attraverso combattimenti, intrighi e puzzle, in un mix allora sconosciuto e inesplorato, a diventare virtualmente una sorta di dittatore benevolente e cibernetico. Passai un periodo di tempo indefinito a guardare la schermata finale, incapace di metabolizzare quanto avevo vissuto e del tutto estasiato dalle possibilità del videogioco come media vero e proprio, oltre che come dignitoso divertissement.

Il momento in cui sono diventato un ometto.

È con questo bagaglio emozionale piuttosto pesante che mi sono presentato al Post Mortem dedicato a Deus Ex in programma alla scorsa GDC. Sul palco, ovviamente, l’uomo, la leggenda, il mito: Warren Spector. Imbardato nel suo gilet d’ordinanza, probabilmente lo stesso, mai lavato dai primi anni ‘90, come al solito impreziosito da una spilla di Topolino, zio Warren si presenta ai miei occhi per la prima volta mentre, prima dell’inizio della presentazione, chiacchiera con un fan che improvvisamente comincia a parlargli con la voce del topastro Disney. Warren, nonostante il capello brizzolato e lo sguardo austero farebbero pensare altrimenti, non si scompone e gli risponde allo stesso modo. Cominciamo bene.

Prendiamo i posti in prima fila poco lontano da zio Warren, ché noi di Outcast siamo giornalisti seri che vogliono dare la miglior copertura possibile ai nostri affezionati lettori. A proposito di copertura, potete coprirci di soldi qui.

“Ma siete tutti qui per sentir parlare di un gioco di diciassette anni fa, vero?” dice fra le risate generali, apostrofando una sala ormai gremita e mettendo bene in chiaro fin dall’inizio le sue indubbie capacità istrioniche da zio un po’ buffone e mezzo sbronzo durante le feste di Natale (Questa metafora è stata donata al progetto Outcast dal buon Nabu) (In realtà credo di averla mutuata da giopep, ma insomma, Warren è un po’ quella roba lì - NdN).

Warren scherza con uno degli stewart prima di cominciare a sfotterlo pesantemente per il colore della maglietta.

“Mai chiedere a uno sviluppatore quale sia il suo gioco preferito” continua “Ma sono sicuro che Deus Ex è il progetto di cui vado più orgoglioso” procede infine con la presentazione, partendo subito dagli obiettivi che si prefiggeva dallo sviluppo del gioco: immergere i giocatori in un mondo coeso e coerente, quasi come se si trattasse di un vero e proprio RPG open world ma con un approccio da FPS. Anche per l’ambientazione le idee erano ben chiare fin dall’inizio. Warren la descrive come un sapiente miscela di Neuromante, Blade Runner, X-Files e James Bond in un un universo cyberpunk. A posteriori possiamo tranquillamente dire che il prodotto finale azzecca in pieno entrambe queste intenzioni, pur embrionali. Prosegue poi la presentazione confessando che in fondo la sua più grande fonte d’ispirazione è un’altra; la slide proiettata cambia e diventa un enorme logo di Dungeons & Dragons, dal gusto squisitamente retrò. A quanto pare Spector era un avidissimo giocatore dell’RPG cartaceo più famoso al mondo, avendoci giocato fin dal 1978 nella sua seconda incarnazione, conosciuta ai più come AD&D. Il suo master all’epoca? Un certo Bruce Sterling, ovvero (per chi non lo sapesse) lo scrittore che da solo ha provveduto a inventare e definire il genere cyberpunk. Robetta.

Una foto di Bruce Sterling, presente alla GDC17, in compagnia del nostro giopep.

Di certo avere un tale mostro sacro come master di D&D ha turbato, nel bene e nel male, il giovane Warren Spector, che con l’occhio un po’ lucido racconta di come la sua campagna di D&D sia durata per ben dieci anni, al termine dei quali si è conclusa fra lacrime di commozione per giocatori e master. “Tutta la mia carriera è incentrata sul cercare di restituire ai giocatori quelle stesse sensazioni che io ho provato durante i dieci anni di svolgimento di quella campagna di D&D”. Parole forti, che mostrano come la genesi di un game designer sia spesso poco diversa da quella di un cattivo fumettistico.

Cazzate a parte, ciò che intendeva prendere a piene mani dal mondo di D&D è il concetto di “shared authorship”, ovvero il dividere lo sviluppo della storia fra master e giocatori. In D&D gli elementi importanti della trama, i colpi di scena e la struttura generale dell’avventura sono decisi dal master, mentre i dettagli e le modalità in cui una determinata situazione viene risolta vengono lasciati all’immaginazione dei giocatori. Allo stesso modo, Spector voleva che in Deus Ex agli sviluppatori venisse data la possibilità di decidere la trama solo a grandi linee, con i giocatori lasciati liberi di decidere come affrontare un determinato problema. Sono quindi i giocatori stessi a fare le scelte, non i personaggi che interpretano, contribuendo all’idea complessiva di immersione totale. Un concetto semplice e rivoluzionario al tempo stesso, specie considerando che stiamo parlando degli anni ‘90, epoca in cui i videogiochi stavano solo cominciando a fare i primi passi in un mondo più grande, che li avrebbe portati a diventare il potente strumento di narrazione che conosciamo oggi. Lo “shared authorship” rappresenta quindi, insieme alla volontà di costruire un mondo realistico e credibile proprio di un RPG, uno dei due pilastri su cui si fonda saldamente l’inizio dello sviluppo di Deus Ex.

Tutto questo accade nella mente di zio Warren intorno al 1994, anno in cui ancora lavora in Origin, ma a dare la spinta finale alla volontà di realizzare questo ambizioso progetto sono gli anni passati in Looking Glass intorno al 1996, in particolare collaborando alla realizzazione di Thief: The Dark Project, uno dei progenitori delle moderne meccaniche stealth. Il brizzolato game designer racconta di come più volte durante i test dei livelli del gioco si fosse trovato in situazioni in cui sentiva un forte desiderio di essere più potente, ovvero di poter aver accesso a strumenti alternativi che andassero oltre quelli già proposti, troppo rigidamente legati a una meccanica prettamente stealth. Vedendosi negata questa possibilità dal resto del team di sviluppo, diviene ancora più determinato nel voler creare un titolo tutto suo, con blackjack e squillo di lusso. Un gioco in cui il giocatore possa fare letteralmente il cazzo che gli pare. La profanità potrebbe non essere stata effettivamente pronunciata ma il senso ultimo era quello.

Warren vi guarda e giudica il vostro game design.

Rispolvera quindi la sua vecchia idea, affibbiandogli il nome di Troubleshooter e un’ambientazione noir/hard boiled, e comincia a proporla in giro con scarso successo. Proprio quando sta per accettare un contratto con EA per un progetto non meglio definito (voci di corridoio dicono che si trattasse di un titolo legato all’universo Command & Conquer), riceve una telefonata dal suo tricotico amico John Romero che, forte del successo di DOOM, ha aperto uno studio tutto suo, conosciuto come Ion Storm. Il capellone gli propone, quindi, di sviluppare la sua idea con budget virtualmente illimitato e completo controllo artistico, un autentico sogno. Warren ovviamente accetta di buon grado, avendo il pieno potere di realizzare il progetto che ha sempre desiderato, e comincia così a sviluppare quello che sarebbe diventato Deus Ex. Questo dovrebbe insegnarci, secondo Spector, che se c’è un gioco che vuoi davvero realizzare, prima o poi ci sarà qualcuno abbastanza stupido da darti i soldi per farlo. Insomma, una genesi decisamente lunga e travagliata che però avrebbe dato i suoi frutti.

Accantonato l’aspetto storico, Warren passa a parlare di argomenti diretti principalmente al mondo degli sviluppatori, descrivendo il processo mentale e logico che segue prima di provare a mettere in atto una sua idea. “Le idee sono semplici da avere. Idee buone e che si possano realizzare sono invece molto più difficili”. Prima anche solo di cominciare a vagliare un progetto, uno sviluppatore dovrebbe essere in grado di rispondere a un set di 6+2+1 domande. Il perché non le definisca direttamente nove domande sfugge allo stesso speaker.

Le prime sei domande sono:

  • Qual è l’idea principale del gioco?
  • Perché fare questo gioco?
  • Quali sono le possibili problematiche nello sviluppo?
  • Quanto è adatta questa idea al mondo dei videogiochi?
  • Quale fantasia il giocatore si ritroverebbe a vivere?
  • Quali sono le azioni che il giocatore può effettuare?

Ovviamente, nel caso di Deus Ex, Spector aveva le cose ben chiare in mente e anzi si lascia andare a una battuta: “Perché fare questo gioco? Perché altrimenti la mia vita sarebbe stato un fallimento!”, dice ridendo nervosamente. Prosegue poi con le altre due domande da porsi:

  • Lo ha già fatto qualcuno? Se sì, allora come? Se no, perché? Magari l’idea fa schifo. [sic.]
  • Cosa ha di speciale?

Qui si lascia andare a una riflessione su come ci sia sempre qualcosa di nuovo da fare e provare nel mondo videoludico. “...anche se state lavorando a un gioco sui Miny Pony, e so che ci sono molti fan qui in sala!”, scherza col suo piacevole fare da sfottitore professionista. Infine l’ultima domanda:

Il gioco ha qualcosa da dire?

È il presupposto per Warren per parlarci delle problematiche e dei temi che intendeva affrontare nel suo gioco. I tardi anni ‘90 avevano visto un rapido incremento degli attacchi terroristici contro l’America, inoltre cominciavano a palesarsi le prime, pur non propriamente convincenti, applicazioni di tecnologie avanzate in ambito militare: esoscheletri, prototipi di dispositivi per l’invisibilità e via dicendo. Lo sviluppo di intelligenze artificiali faceva passi da gigante, insieme al miglioramento dei processi nanotecnologici in un ampio spettro di applicazioni. Tutto questo, unito al rapido espandersi delle più disparate teorie cospirazionistiche (Illuminati, “black helicopters” e così via), ha fortemente ispirato il mondo di Deus Ex, un mondo futuristico non troppo lontano in cui tutto questo è reale e tangibile. Ciò che il gioco vuole esplorare è però una domanda ben più complessa: cosa significherebbe essere “umani” in un mondo del genere? E se potessimo decidere il fato del mondo intero, cosa sceglieremmo di fare? Una dittatura illuminata e ciberneticamente interconnessa o un nuovo medioevo? Proprio per questo motivo, spiega, ha deciso di non includere alcun tipo di boss nel gioco, in fondo il giocatore ha già sulle spalle il destino del mondo. Così come per un libro si può solo decidere se si è d’accordo o meno, senza alcuna possibilità di modificare gli eventi, allo stesso modo la libertà insita nei videogiochi dovrebbe poter permettere al giocatore di scegliere in ogni momento il da farsi.

Certo è buffo e inquietante al tempo stesso che alcune delle previsioni di Deus Ex si siano poi effettivamente verificate nel mondo reale. Nel gioco finale, ad esempio, nel livello ambientato a New York non sono presenti le Twin Towers, a quanto pare per una mera questione tecnica, e la loro sparizione è spiegata con un attentato terroristico avvenuto molti anni prima. Tutto questo, ovviamente, avveniva almeno un anno prima dell’attentato dell’undici settembre. Paura eh!? Tuttavia la dice lunga su quanto l’ambientazione si sforzasse e in gran parte riuscisse a dipingere un futuro distopico, ma neanche troppo.

Manca qualcosa nella skyline di Manhattan pre-2001 o sbaglio?

Zio Warren passa poi a descrivere il diktat che aveva più o meno imposto al suo team all’inizio dello sviluppo, una serie di linee guida da tenere sempre a mente. Tra queste spiccano per modernità l’approccio “problem-solving” piuttosto che “puzzle-solving” da dare agli enigmi di gioco, quindi fornire ai giocatori problemi, quanto più possibile reali, da risolvere creativamente, piuttosto che enigmi astratti con una sola possibile soluzione. Inoltre, Spector era chiaramente avanti di molti anni anche in altri aspetti che ora diamo per scontati, ma che al tempo non lo erano affatto, ad esempio pretendendo dal suo team di sviluppo un prodotto che non prevedesse alcun fallimento forzato o situazione senza via di fuga, e che contemplasse una difficoltà dinamica e un level design decisamente non-lineare ma comunque fortemente interconnesso (Miyazaki gli spiccia casa).

Dopo uno sviluppo lungo e travagliato, con svariate riscritture della documentazione e soprattutto delle missioni, che a suo dire all’inizio non erano per nulla divertenti (anzi, dice espressamente che facevano abbastanza schifo), il gioco finalmente esce tre anni dopo. Nel frattempo, però, pare fossero usciti due titoli di cui magari avete sentito parlare: un certo Half-Life per il mondo FPS e Baldur’s gate per quello RPG. Pur essendo certi che Deus Ex fosse inferiore a questi ultimi per quel che riguarda i singoli generi, gli sviluppatori di Ion Storm speravano che l’insieme fosse meglio della somma delle parti. Penso di poter dire a cuor leggero che il tempo abbia dato loro ragione e infatti oggi Deus Ex è annoverato fra i capolavori di quell’epoca, al pari degli altri due titoli citati.

Infine, zio Warren giunge al cuore stesso di ogni buon post mortem, ovvero tutto quello che è stato fatto di giusto e sbagliato nello sviluppo del gioco. È convinto che la lunga pre-produzione, per quanto spesso noiosa, abbia dato i suoi frutti e contribuito non poco al successo del gioco, insieme alla natura organica e aperta ai cambiamenti del design, che si è rivelata particolarmente utile quando hanno dovuto di fatto ricostruire il gioco da capo dopo i primi deludenti risultati. Ha poi enfatizzato l’importanza di coinvolgere nuove persone e di trarre ispirazione dai giochi che venivano pubblicati durante quegli anni, attività questa che gli ha permesso di includere nuove idee ancora largamente inesplorate. Inoltre, il fatto di avere in ogni momento dello sviluppo una build giocabile da poter testare continuamente, per verificare l’effettiva bontà del risultato, li ha aiutati enormemente a cogliere alcuni evidenti limiti del gioco già in fase embrionale, prima che diventassero disastri inevitabili.

Che poi, a dirla tutto, Warren aveva anche previsto il look tamarro occhialetto ed impermeabile che Matrix avrebbe portato alla ribalta in quegli anni.

Poi dà il via all’inevitabile sfilza di disastri e pessime decisioni che lo sviluppo di un gioco comporta. Comincia a suo modo con un aneddoto: per lavorare su Deus Ex erano stati creati due team separati, indipendenti e in agguerrita competizione. Ovviamente, dovendo assegnare un nome, non poteva optare per un “Team 1” e “Team 2” pena un’ovvia demoralizzazione del secondo gruppo. Per questo ha deciso di chiamare i due gruppi “Team 1” e “Team A”, con una mossa geniale e paracula al tempo stesso. Parla poi degli obiettivi un po’ troppo ambiziosi che aveva posto per il progetto, ad esempio fa riferimenti a un possibile livello in cui era necessario liberare centinaia di persone da un campo di concentramento, decisamente troppo per l’Unreal Engine dell’epoca, che era stato creato per gestire solo un pugno di personaggi a schermo. A tal proposito, ricorda anche alla platea di sviluppatori che utilizzare licenze per motori grafici e fisici è comodo e funzionale, ma comporta anche un tempo piuttosto lungo di apprendimento degli strumenti di creazione e sviluppo. Questo senza contare che, come nel suo caso, forse questi motori non sono stati creati per realizzare ciò che si ha in mente e che quindi avranno bisogno di infinite modifiche e trucchetti vari per poter dare il risultato sperato. Racconta infatti di come avessero in mente di simulare molti più personaggi, specie nelle aree urbane, ma che i limiti imposti dall’Unreal Engine non glielo permettessero in alcun modo. Non risparmia poi una stoccata nei confronti di Ion Storm, la cui prematura dipartita, secondo Warren, è frutto di una serie di evidenti problemi gestionali. “Ma la colpa non è di Romero. Mi ha dato esattamente tutto ciò che aveva promesso e ama i videogiochi come e più di ogni altra persona in questa sala”, ci tiene a precisare fra gli applausi del pubblico.

Infine, racconta del periodo dopo la pubblicazione di Deus Ex. Visibilmente inorgoglito, passa in rassegna premi e recensioni estremamente positive del gioco, ma ciò che più sembra renderlo felice è l’aver ottenuto quello che voleva, vedendo il pubblico affrontare i vari aspetti del gioco nei modi più disparati spesso totalmente non previsti, esattamente quanto ci si aspetta da un gioco non-lineare basato su sistemi. Inoltre, forse per la prima volta nella storia, ha potuto vedere giocatori paralizzati al pensiero di dover prendere una decisione vera, concreta e con delle conseguenze. Semplicemente ripensandoci, Warren gongola visibilmente. Ritiene che il gioco sia stato un successo perché parlando con le persone che lo avevano giocato, scopriva che si concentravano sulle scelte fatte e sul fato del mondo, piuttosto che su quanto fosse spettacolare questo o quel boss. Deus Ex voleva essere un gioco incentrato sul giocatore e su come potesse plasmare il futuro del mondo; il semplice fatto che questo messaggio sia passato al grande pubblico è di per sé un grande successo per il nostro amato game designer brizzolato.

Insomma, l’idea è che Warren si fosse preposto l’obiettivo di cambiare anche in minima parte il mondo dei videogiochi con un prodotto originale e che facesse discutere al di là delle solite meccaniche, e questo obiettivo sembra centrato in pieno anche a distanza di anni. Spector conclude incoraggiando gli sviluppatori a combattere per realizzare il gioco dei loro sogni, perché è un’esperienza fantastica, che nel suo fortunato caso ha portato allo sviluppo di un franchise che ha vita propria anche senza di lui.

Ora, dovete sapere che, durante tutto il talk, zio Warren faceva continui riferimenti al fatto che gli rimaneva poco tempo e che quindi era costretto a velocizzare un po’ il tutto. “DUUUUUUUDE!” è la sua reazione quando si accorge che ha ancora dieci minuti abbondanti per domande ed affini. Qui giunge infine un’importante rivelazione sul nome del protagonista. Durante gli anni è sempre serpeggiato il sospetto che J.C. stesse per Jesus Christ, quasi come se il protagonista fosse un novello Redentore pronto a sacrificarsi per l’umanità. Warren esita un po’ dopo una domanda diretta a riguardo, poi confessa che il pettegolezzo è fondato ma non per i motivi che crediamo. J.C. sta effettivamente per Jesus Christ, ma solo perché ha un amico, chiamato appunto Denton, sempre troppo buono e disponibile per tutti. Per questo ed altri motivi si trovava spesso a dirgli “Jesus Christ Denton!” da cui la nascita di un nome apparentemente provvisorio a cui poi il team di sviluppo si è affezionato. E voilà un altro grande mistero mondiale svelato. Poco dopo, un tizio gli chiede se ha intenzione di rendere pubblico il codice sorgente di Deus Ex, in modo da potergli permettere di lavorare a una versione per il VR. Zio Warren è abbastanza chiaro con l’avventore: “No! E comunque System Shock già supportava il VR nel 1994, l’ultima volta in cui il VR avrebbe dovuto salvare il nostro settore!”. Risate generali del pubblico. Potete anche chiudere la GDC quest’anno.

Nei miei ricordi, ma non sono del tutto certo sia successo davvero, Warren Spector conclude strappando il microfono dal podio e lasciandolo cadere sul palco senza dire una parola in un clamoroso mic drop, fra gli scroscianti applausi del pubblico. Poi si allontana, col suo gilet, fra due file di folla adorante. L’uomo, il mito, la leggenda, il gilet vivente, lo zio ubriaco alla festa di Natale: Warren Spector, signore e signori.

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