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Voletevi bene e guardate Master of None

Quanto è bello, Louie? Tanto, troppo. Sulle pagine di Outcast se n’è già parlato, tra l’altro, e dunque vi rimando allo speciale di Andrea Maderna; comunque, a parte l’essere una serie bellissima, Louie ha avuto anche il merito di aver tracciato una nuova via all’interno del mondo delle comedy, lanciando questa specie di sottogenere di robe a sfondo autobiografico curate da gente che di lavoro fa il comico. Da quando la serie ha debuttato, nel 2010, sono usciti diversi prodotti che, per sommi capi, ricalcano quanto fatto da Louie CK (e alcuni di questi, tra l’altro, vedono la collaborazione dello stesso): One Mississippi, Better Things, Crashing e, appunto, Master of None, la serie di cui andiamo a parlare oggi. Prodotta da Netflix e con Aziz Ansari e Alan Yang (Parks and Recreations alle spalle, proprio con lo stesso Ansari come attore) nelle vesti di showrunners, si tratta di una comedy atipica, proprio come Louie, seppur in modo diverso; il protagonista è lo stesso Aziz Ansari, che interpreta Dev, un personaggio per certi versi a lui speculare, cioè un trentenne che nella vita si arrabatta, fra un contratto e l’altro, facendo l’attore comico in quel di New York, affrontando nel mentre tutto quello che la vita gli/ci butta addosso: sogni da realizzare, amori difficili da gestire, genitori ancora non abituati all’età adulta dei propri figli e via discorrendo; tutto sempre con questo taglio mattacchione e che strappa sorrisi a più riprese. Seppur con dei picchi davvero elevati (l’episodio sugli attori indiani ad esempio, epico), la prima stagione non mi convinse totalmente; la trovai un po’ immatura, con tanti buoni spunti, ma non sempre ben sfruttati. Fortunatamente, in questa seconda stagione, le cose sono andate in modo un tantino diverso.

Durante la precedente stagione, il protagonista, Dev, ce la menava abbastanza con ‘sto fatto che volesse andare in Italia a mangiare, a provare tutte le ficate dello stivale, il bel tempo eccetera. Bene, alla fine realizza il suo sogno, e questo è documentato in particolare nei primi due episodi (dei dieci totali, da circa trenti minuti ciascuno); e che episodi. Il primo, soprattutto, è un continuo strizzare l’occhio, in maniera mai sgradevole o eccessiva, al cinema italiano e a Ladri di biciclette, il capolavoro di De Sica e Zavattini. La cosa che più mi ha impressionato, di queste due puntate, è come l’Italia viene descritta. Non so se vi è mai capitato di parlare dell’Italia attorniati da persone straniere, che magari conoscono poco del nostro paese: in linea di massima, a meno che non seguano assiduamente le vicende di Palazzo Chigi, vi parleranno estasiati di tutte le fantasticherie che ci sono dalle nostre parti, e che noi diamo spessissimo per scontate. Ecco, Master of None fa la stessa cosa. In modo abbastanza idealizzato, certo: Dev ha ‘sto vizio, ad esempio, di lasciare la bici incustodita senza rischio che gliela freghino, che ridere. Ma vabbè; anzi, di più: l’inizio di questa seconda stagione di Master of None è il miglior spot che il nostro paese possa avere, anche in anni bui come questi, e spero che la stampa italiana se ne accorga al più presto. Tutti i difetti, tutte le brutture sono messe da parte, in favore della bellezza che Aziz Ansari e Alan Yang riescono perfettamente a mettere in mostra, con ogni scorcio, ogni azione abitudinaria e soprattutto ogni piatto sempre perfettamente tratteggiato.

Pecorino patrimonio dell’umanità.

Chiusa questa parentesi campanilista, c’è da dire che i meriti di questo ritorno di Master of None non finiscono mica qui. La sensazione di immaturità, cui prima accennavo, era data soprattutto da come certi argomenti venivano trattati. Per certi versi, potremmo definire la serie di Aziz Ansari, a sua volta, come una sorta di corrispettivo di Girls – ma sempre con l’attitudine del già citato Louie, quindi battute e piglio autobiografico a profusione – ovvero: le avventure di quelli dai venti ai quarant’anni, ma in salsa maschile. Ecco, era proprio qui che, delle volte, Master of None peccava; quella sensazione di implausibilità, e poi qualche forzatura, spesso parecchio stucchevole. Il punto è che l’immersione dello spettatore era poco più che accennata. A quasi due anni di distanza dal debutto, invece, la situazione è cambiata. Tutto ruota attorno al nuovo amore di Dev, quindi come nella precedente stagione. Questa volta, però, la prescelta è Francesca, interpretata da Alessandra Mastonardi (nota ai più per essere la tizia de I Cesaroni); che è bellissima, con quegli occhi da cerbiatta e quel sorriso imperfetto che si ritrova, anche se è rimasta tale e quale a come la ricordavo: una cagna, una cagna maledetta. Eppure in questo caso la aiuta un inglese buffissimo, con un accento forzato che proprio ti fa esclamare ogni volta, con gli occhi a forma di cuoricino, “ommachettenerachessei”. Non mi dilungo ulteriormente su questo aspetto della storia, se non per dirvi che tutto, in questa seconda stagione di Master of None, è gestito alla perfezione. L’immersione, i tempi, i dialoghi, i gesti: tutto è come dovrebbe essere. Anche i nuovi personaggi introdotti, fenomenali. Su tutti Bobby Cannavale (Vinyl ma soprattutto Boardwalk Empire alle spalle, con l’interpretazione di Gyp Rosetti, un villain epocale), che mi ha ricordato di essere fra i migliori caratteristi in circolazione e che qui, in questo contesto, risulta completamente a suo agio.

True story: purtroppo il mio inglese non ha ancora raggiunto il livello che vorrei, tanto che, quando sentivo la Mastronardi parlare, pensavo “Ah, dai, non è affatto male, in inglese”, nonostante il personaggio di Aziz Ansari la prendesse per il culo per il suo “bad english”. Beh, io pensavo che scherzasse, invece, alla fine (SPOILER), si scopre che pensava sul serio che facesse cacare in inglese, e dunque io, di riflesso, faccio ancora più cacare di lei.

In questo senso, credo forse di aver capito dov’è che peccava la precedente stagione di Master of None: gli mancava la giusta dose di sfiga. Che qui c’è, e non è resa solo nella love story che fa da perno centrale, bensì in tutto l’arco dei dieci episodi. L’idealizzazione, fortunatamente, c’è solo nel ritrarre l’Italia. Per il resto, tutto ciò che circonda Dev è di quello sfigato con cui tutti noi conviviamo giorno dopo giorno; di quello che non lascia necessariamente atterriti, ma che è meglio affrontare col sorriso sulle labbra. A tal proposito, l’ottavo episodio, Thanksgiving: splendido. Altro aspetto dove il salto di qualità si avverte è nella regia. Cito su tutti un’altra puntata, la nove, che dura quasi un’ora. Un episodio che mostra i passi fatti in avanti non solo sotto l'aspetto stilistico, bensì con una regia regia che risulta più matura a tutto tondo, anche la gestione dei tempi e, soprattutto, nel ritrarre gli attori. Questa nona puntata, tra l'altro, mi ha letteralmente rapito tanto che mi sono accorto dell’insolita lunghezza solo quando mancavano cinque minuti alla conclusione. Insomma, in un 2017 già ricco di qualità sotto il profilo delle uscite televisive, Master of None costituisce senza dubbio uno fra i migliori prodotti sulla piazza, oltre che, probabilmente, una fra le migliori serie TV targate Netflix, delle volte forse fin troppo bastonata per le sue stereotipate robe coi supereroi. Ma fintanto che passano cose come Master of None, a me va più che bene.

Mi sono divorato Master of None in appena due giorni su Netflix. In questo caso, la lingua originale è un obbligo: ora che ci penso, non ho provato a switchare, però vi assicuro che è sempre una cosa simpaticissima vedere la gente alternare l’inglese all’italiano, magari con inflessione dialettale. A proposito, sentire Aziz Ansari, che già ha una voce buffa di suo, parlare la nostra lingua con questo accento americano è stato un vero spasso.