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Racconti dall'ospizio #36: Sapore di MAME, sapore di...

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Bologna, via Orfeo 30, 5 febbraio 1997. Ero tornato single da pochi mesi. Avevo passato l’ultima notte stringendo forte tra le mani, senza una reale ragione, una copia dello shoot ’em up Construction Kit per Amiga, a riprova di come la vita non avesse molto senso, trascinata tra esami universitari pressanti a Scienze della Comunicazione, che non era ancora la stereotipata barzelletta di tutti, come già Scienze Politiche. No. Comunicazione era appena nata, era tosta e Umberto Eco ci sorrideva bonario mentre i suoi assistenti ci sculacciavano a colpi di libretto, in un gioco di eterni ritorni (al prossimo appello).

La giornata passò pigra e inutile ascoltando Alexander Platz nella versione di Battiato, che anche voi potete recuperare sul live Giubbe Rosse

Quindi, in sostanza, l’appuntamento con la storia - l’uscita della primissima release del MAME - mi colse impreparato. Ma erano tempi differenti, e probabilmente lo sapete. Non è che uno fosse sempre online. Anzi, per niente. Manco avevamo internet, a casa, io e i miei tre compagni d’appartamento. Ma perché avere Internet a casa, quando hai il Dipartimento di Comunicazione di via Toffano? Veloce, su una “dorsale universitaria” o qualcosa del genere, Internet di via Toffano era qualcosa di inconcepibile, con picchi a 200 K al secondo. A metà anni Novanta. Capite come passasse la voglia di un modem telefonico. Avevo scaricato i video con le sigle di Maison Ikkoku da un folder chiaramente abusivo nell’FTP del leggendario Lysator.

6 febbraio 1997. Mi trascino, sbattuto e ribattuto con la sana apatia del giovane single, in via Toffano. Fabio Parri, immarcescibile passionario della nerditudine internettiana, già padrone di una delle postazioni PC del dipartimento, mi fa “Oh, c’è un nuovo emulatore, è fatto da un italiano e infatti giustamente si chiama MAME ah ah”. Così. Ricordo le sue esatte parole. Quelle. E che gli chiesi, OK, un nuovo emulatore, ma cosa emula? Insomma, di emulatori di sistemi da casa se ne erano visti ormai diversi. MSX, Colecovision, Spectrum, Commodore… c’era pure un emulatore a pagamento del NES che avevamo craccato pochi secondi dopo l’uscita. Avevamo “tutte le ROM” per quei sistemi, o almeno così ci pareva. 

Eravamo tranquilli? No, eravamo schizzati tipo adrenalina, in una eterna bit-bulimia dove i dati e la banda non finiscono mai, si rincorrono e c’è sicuramente un nuovo sorprendente eseguibile che aspetta noi. E siti pirata meravigliosi. E un tecnico di laboratorio animato da nobili ideali che col motto “Bravi ragazzi fanno pratica col computer” riuscì a chiudere un occhio anche quando mi beccò che trafugavo Lemmings dal computer della segretaria di Eco via LAN. Ma questa è un’altra storia. 

Torniamo al MAME. Anzi, no. A un attimo prima. Un attimo prima del MAME, i nomi caldi da tenere d’occhio erano Dave Spicer, Ville Laitinen, Sergio Munoz, Joselba Elpaza e altri altrettanto dimenticatissimissimi. Costoro avevano deflorato l’ultimo virginale mistero dell’emulazione videoludica: la sala giochi. In questo articolo dell’altro giorno, ho spiegato l’alone di mistero che attorniava i cab per chi non fosse informatico, collezionista o noleggiatore. Be’, i signori qui sopra erano riusciti ad emulare una manciata di vecchi coin-op. Solitamente, un singolo eseguibile serviva a emulare e far giocare su PC un solo gioco, a patto di venir opportunamente foraggiato con il dump dei dati proveniente dalla scheda del gioco corrispondente. C’erano naturalmente anche offerte commerciali di questo tipo, come l’agghiacciante Return of the Arcade di Microsoft di inizio 1996 (da giocare obbligatoriamente in finestra perché, oh, noi facciamo Windows), con Pac-Man che lo schermo non lampeggiava a fine livello. Morite malissimo, noi vogliamo l’emulazione 1 a 1, noi dobbiamo sapere che stiamo salvando i dati del passato, le nostre memorie, la nostra vita. Non possiamo chiedere questo al mercato, votato all’obsolescenza tecnologica. No. La rivoluzione deve partire dal basso. Dalle camerette dei coder amatoriali che emulano per la gloria, per internet, nel nome del gratis. Noi non lo chiediamo, lo esigiamo. Noi. Io e Fabio Parri.

E insomma, alla fatidica domanda “Cosa emula, ‘sto MAME?” Fabio Parri rispose: “Vogliono fare un unico emulatore per tutti giochi da sala”. In che senso tutti? Tutti. È come se a quattordici anni fosse piombata nella mia stanza Kelly LeBrock dichiarando programmaticamente che avremmo passato il mese successivo a esplorare ogni singola posizione del Kama Sutra (banale, vero, ma la forza dei desideri di un quattordicenne è proprio insita nella loro banalità).

Quindi. MAME che vuole emulare TUTTO. Non solo. MAME che ha lo scopo dichiarato di preservare correttamente. Di documentare. Di essere multiautore. Di essere il LINUX dell’emulazione, laddove fino a quel punto non era così scontato lavorare open source. Immaginavo legioni di coder che virtuosamente collaborano per fare reverse engineering e scoprire i viziosi misteri del chip audio di Out Run. Questo genere di cose. Stavo lì con gli occhi a palla a guardare il primo, timidissimo MAME coi suoi cinque giochi, davvero troppo pochi per affermare che non fossero solo buoni propositi, già sentiti in tanti altri casi emulativi. E poi uno scazzo, un momento egoico e tanti bei progetti hanno fatto patatrac. No, il codice sorgente non te lo do, gne gne gne. Eccetera. 

Dopo mezz’oretta di esaltazione, io e Fabio Parri ci rendemmo conto di essere, effettivamente, nel laboratorio di informatica di una sede distaccata dell’Università che, nel frattempo, si era popolata di gente che doveva studiare. O scaricare testi delle canzoni degli Oasis. Be’, di certo non pupparsi i discorsi ad alta voce di due sciamannati. Fabio tornò al PC - non sia mai che nel frattempo non uscisse un emulatore di Tatakai no Banka o Ginga Ninkyouden, financo di Ginga Teikoku no Gyakushu. Io uscii a fumare. 

Il Dipartimento era un posto d’una bellezza sontuosa, una villetta immersa nel verde che sinceramente non si capisce come mai l’avessero AH SI’ era anche la sede dello studio di Umberto Eco. Questa villetta qui, che oggi è solo ritinteggiata in un colore improbabile (era bianca) e forse un pelo soffocata dal verde (i giardinieri costano).

Inoltre, Umberto Eco non c’è più, così come la leggendaria Simona, la sua segretaria a cui mai confessai di aver trafugato Lemmings dal PC.

Enough! Io uscii a fumare.

Mentre cercavo di darmi un tono - ero pur sempre un ventiduenne single nella rutilante Bologna e il Dipartimento era pieno di ragazze belle, forti, brillanti e sessualmente impegnative - sentii una voce alle mie spalle. Una voce bella, forte, brillante. Relativamente familiare. Mi voltai con la migliore espressione bogartiana possible (voto reale sulla scala Bogart: 4/10). Ustimenti! Era Eliana. Quella nel mio corso. Quella che sembrava sempre molto, molto seriosa, ma che ti fregava con quella voce bella, forte e brillante. Ti parlava degli appunti col piglio quasi marziale, solitamente nell’anticamera di un professore o in corridoio aspettando il turno d’esame, e tu smettevi di ascoltare COSA diceva e ti concentravi sul timbro alto ma non squillante, fresco, invitante. Invitante a niente, visto che non frequentava più di tanto i compagni di corso, non interagiva, non sbevazzava, scappava a fine lezione come un ladro nella notte. Aveva palesemente una grossa vita extra-università. Studiava presto e bene, macinava i 30 e lode e poi via. Sapevo solo che era di Codigoro. Che non sapevo dove fosse. Da qualche parte nel Ferrarese. Andava e tornava in macchina. Qualcuno l’aveva vista spesso con lo stesso ragazzo... il fratello? Il fidanzato? Il fratello fidanzato? Aveva l’andazzo da cattolica, o forse da ragazza da buona famiglia, o insomma quella allure che ti fa brancolare nel buio e campare in aria supposizioni stereotipate. Sembrava facesse tutto il possibile per passare inosservata o per lo meno per non destare curiosità, specialmente maschile. Il che era comunque difficile, perché aveva due tette pesanti, gravose, e una pelle bianchissima. Naturalmente era ben attenta a non enfatizzare questa peculiarità. Le tette, intendo. E, Eliana cara, era tutto inutile. Come pretendere che questo branco di intellettualoidi di Comunicazione rispettasse i paletti da te piazzati a difesa della tua riservatezza? Di persona nessun problema. Ma mai avresti potuto impedirci di sognare, di sviluppare ipotesi sulla tua vita privata, passeggiando intabarrati ai Giardini Margherita, fumando avidamente paglie e alternando discorsi su Chomsky e Todorov alle tue tette, mentre il freddo dell’inverno attorno a noi sbiadiva i colori come in una fotografia degli anni Novanta. Impossibile. Con l’immaginazione, spogliavamo quel tuo understatement e disegnavamo centimetri su centimetri di pelle bianca sotto i tuoi vestiti, dentro il colletto stretto, su per le maniche del piumino, ricomponendo la mappa inconoscibile del tuo corpo nudo. 

“Ma insomma, mi stai ascoltando?”

“Ciaoscusa Eliana, puoi ripetere, stavo... ”

“Vedi che non ti fa mica bene stare sempre davanti al computer… tre volte che passo in dipartimento e tre volte sei là con gli occhi sgranati a guardare lo schermo… e magari chi deve fare una ricerca per una tesina deve pure aspettare!” La frase era partita con un tono insolito, quasi da “Ti apostrofo, adorabile buffoncello!” ma l’accenno di sorriso era subito rientrato e il viso di Eliana si era inasprito nella tipica smorfia che segue il primo morso a un tortino di Porretta scaduto. E il tortino di Porretta scaduto, sostanzialmente, ero io. Era il mio operato, il mio farle perdere tempo nelle sue infrequenti calate da Codigoro a Bologna. La sua tabella di marcia era minacciata. 

Siccome mi ero perso la prima parte della sua prima frase, non sapevo come controbattere. C’era, in quella circostanza, l’anomalia di Eliana che mi rivolgeva la parola così, ex abrupto, in un freddo mattino di febbraio. In una di quelle pause sospese come un cielo velato che capitano nella vita, la guardai negli occhi oltre lo sguardo. Non mi concentrai sullo sguardo recriminatorio. Era come se mi stessi focalizzando sulla qualità della sua iride, della sua anima. Iridologia spicciola. Ne aveva parlato Red Ronnie nel suo programma su Videomusic proprio due sere prima, quando non riuscivo a far partire la true drive emulation per giocare a Salamander sul C64s e, esasperato, volli dare una chance alla TV e credito a Red Ronnie. Però sì, diceva che l’iride ci dice qualcosa, olisticamente, su una persona. Ed è questa la magia dell’attrazione in mano a uno studente di Comunicazione - qualsiasi costrutto teorico è utile per dare forma alla sega mentale che ti stai sparando, se può essere d’incoraggiamento di fronte alla silhouette egregissima di Eliana. Quindi le guardai dritto nell’anima, come diceva Red, e mi convinsi scorgere una… giocatrice. Contro la logica, Eliana era una giocatrice annoiata che aspetta un contendente alla scacchiera. Non aveva senso, ma se Dylan Dog mi aveva insegnato qualcosa, era che frasi inadeguate al momento ma con un sottotesto audace ti avrebbero permesso di avere una ragazza diversa a ogni nuovo volumetto, financo disegnato da Montanari e Grassani. Era il momento di dire qualcosa di spiazzante. E poi restare lì, piantato nell’iride, con il tono di “Your move, please”. Avevo Red Ronnie, Dylan Dog e buona parte della psicolinguistica al mio fianco e…

“Dimmi cosa posso fare per te e lo farò. Qualunque cosa. Qualsiasi cosa”.

Cristosanto, ma che cazzo ho detto, pensai troppo tardi. L’idea era di dire qualcosa di edgy. Qualcosa di obliquo. Non l’equivalente formalmente controllato di “Sono un agnellino informe, investimi con la tua Y10”. Esclamare “Giuda ballerino” non avrebbe giovato. Pausa.

Eliana non tradiva emozione. Forse, se mi fossi staccato dal suo gran paio di iridi e avessi valutato meglio la sua espressione, avrei colto qualche indizio. Ma non era tempo di ragionare! Stavo iniziando la mano con le carte peggiori del mondo. Senza un “jacks or better” proprio. Nella mia mente balenò l’immagine di un vecchio coin-op di Capcom commercializzato dalla Mitchell, Poker Ladies. Praticamente un videopoker in cui non si vincevano soldi ma si spogliavano ragazze pixelate a vincite incrementali. Non solo si spogliavano: all’ultimo step di ogni ragazza, ogni 10000 G, la fanciulla di turno si prestava a giochi erotici fuori da ogni scala, roba da hentai che in sala giochi tutti smettevano di giocare per un attimo restando impietriti. Chi non ha mai reso trasparenti le mutandine di una ragazza schizzandole d’acqua con una siringa! Chi non ha mai inturgidito i capezzoli della propria fiancée usando un la lingua biforcuta di un cobra! Chi non ha mai giocato a Poker Ladies, ecco chi. Con il character design di Akira “Akiman” Yasuda, il gioco era disturbante e bellissimo, ma Capcom non poté certo metterci la faccia. 

Per quanto il mio primo pensiero metaforico fosse stato “Eliana la giocatrice di scacchi”, la partita era infinitamente più prosaica, più ormonalmente onesta.

Eliana era una bellissima ragazza di Poker Ladies, e alla prima mano ero già vicino al game over, senza nemmeno un gettone in tasca per continuare. Che poi, peraltro, avrei dovuto aspettare un bel po’ prima che il MAME emulasse Poker Ladies.

Nessuno passava. Solo i secondi passavano. E allora successe quello che negli annali è ricordato come il  Miracolo di Celentano. Sì, come quando a Fantastico nel 1987 se ne era stato zitto, in silenzio davanti al pubblico, per MINUTI, ed era il presentatore del varietà in questione. Lo guardavo e mi sarei voluto ammazzare per lui. Fai qualcosa! E lui no. E la gente cominciò ad applaudire, confusa. E applaudiva avanti. 

Per fortuna Eliana non applaudì. Scoppiò a ridere in slow motion. Cercando di trattenersi maldestramente, come fanno le morose quando le hai fatte arrabbiare ma non sono più arrabbiate sul serio. Però, normalmente, è richiesta una certa intimità, perché il meccanismo funzioni. Una volta che scoppi a ridere, la pace è fatta. Ma qui? C’era stata una scaramuccia? Neanche! C’era stato uno scambio di battute complessivamente improbabile, che non portava a nulla di definito, come un cielo velato di febbraio. E ora quella sua risata era il mio tris. Sufficiente a vincere se non altro la continuazione della partita. 

Eliana sapeva istintivamente quanto una risata possa renderci vulnerabili, per quello rideva di rado. E ora doveva rimediare. Con la risata ancora nei lineamenti, ribatté, in tono sarcastico, con accento più smaccatamente ferrarese del solito: “Qualsiasi cosa? Ma dove, nel mondo reale o sul World Wide Web?”. Come a dire: ma tu cos’è di tanto speciale che puoi darmi, inutile essere?

Stavolta restai in silenzio per pura timidezza, pretendendo di ammantare di significato il non proferir favella. Non vedevo uscite, se non la mia, dal cancelletto del Dipartimento di Via Toffano, a gambe levate. Ma mi sbagliavo. Perché Eliana, ora, voleva giocare. Voleva capire dove stessi andando a parare. “Your move”. E io non muovevo - il miracolo di Celentano ti può salvare una volta, ma solo se poi intoni Una carezza in un pugno. Sennò non sei Celentano, sei un povero mona. Però… Però sì, Eliana voleva giocare e mi fece l’assist più clamoroso e inconcepibile. 

“Ma tu che hai tutti i giochi vecchi, ce l’hai quello degli hamburger?”

“Eh?”

“Il gioco degli hamburger. Ci giocavo da piccola in un bar di Comacchio quando mio padre prendeva il giornale”.

Eliana mi stava chiedendo di Burger Time.

Della versione da sala giochi di Burger Time

Tu che hai tutti i giochi vecchi. 

Ce l’hai quello dell’hamburger.

Feci mente locale, ma era inutile, sapevo già la risposta: no, non esistevano emulatori in grado di far girare Burger Time da sala giochi. Niente. Pensai al MAME appena uscito, alla sua vocazione universalistica. Prima o poi il MAME avrà Burger Time. Sicuramente. Ma non ancora. Eliana, è troppo presto, avrei voluto dirle, ma sarei sembrato più schizzato di quanto già non fossi.

“Si… può… trovare, ecco” balbettai. Ehi, il poker è anche bluffare. OK, nel videopoker non si bluffa, ma pazienza. 

Sorrise. “Be’, bene! Mi piacerebbe rigiocarci. Mi puoi fare un floppy?”

“Sì, certo, sì”. Vai, vai vai. Quando si è in ballo si balla, no?

“Ora devo andare, ma domani, visto che tutti i PC erano occupati, devo tornare per la ricerca. Se sei qui combiniamo”. Era tornata seria, compunta. Non si era risparmiata una stoccatina di raffeddamento. Aveva ormai messo in agenda il task. Burger Time. Floppy. Agenda sua, task mio, appuntamento domani, grazie e arrivederci. 

“Be’, vado, è tardissimo, ciao”

Clang. Chiuso il cancello, nessun umano in vista. Il rombo di una moto in via Toffano. Solo io. Con la strana sensazione di aver ottenuto un appuntamento, o un pre-appuntamento, o insomma una roba. C’erano delle possibilità di dialogo ulteriore, ma mi serviva un oggetto preciso. Che non esisteva. Non ancora. Non esisteva Burger Time da sala giochi giocabile col MAME o con qualsiasi altro emulatore. Eppure dovevo trovarlo e copiarlo su un floppy. Non aveva gran senso. Ma ripensavo alle iridi di Eliana. E alle sue tette che, per lo shock del momento, non avevo nemmeno avuto il coraggio di sbirciare, di immaginare sotto il vestito. Ecco, quelle tette meritavano che Burger Time di colpo si materializzasse. La mia mente ora palpitava, mentre il cuore si riempiva di pensieri. Piani diabolici da fumettone. Il gioco a cui giocava quand’era piccola. Il mondo dei ricordi. I suoi ricordi. I miei ricordi. Sfere intime, sfere da birreria… no, enoteca, ma con che soldi? Ma poi beve? Si prenderà il floppy grazie ciao? Pizza? Inventarsi esami da ripetere insiem… Dove si … come… 

Basta. Burger Time DOVEVA ESISTERE. E doveva farlo subito. 

Rientrai. Corsi giù per le scale, nel seminterrato. Fabio Parri era ancora al PC a smanettare.

“Fabio, dimmi che esiste Burger Time coin-op emulato”
“Be’, no, non esiste, lo sai anche tu che…”
“No, tu dimmi che esiste”
“Ma non esiste”
“Come poso farlo esistere?”
“Sai programmare?” 
“No, lo sai benissimo che no!”
“E allora non esiste, bisogna aspettare, ma con tutti i giochi che...”

Tutti i giochi. Meno uno.

Non potevo aspettare. Non sarebbero bastate ventiquattr’ore d’attesa. La mia giovinezza stava prendendo una forma troppo solitaria e spigolosa. Poker Lady.

Pian piano, cominciò a prendere forma un’idea.

FINE PRIMA PARTE