Videogiochi e cinema tra mito, rito e folklore: un excursus un po’ a casaccio
So bene che non interessa praticamente a nessuno, ma per una serie di casualità sto buttando giù questo pezzo in una deliziosa biblioteca di provincia che ricorda tantissimo quella della mia scuola elementare. Sempre per puro caso mi sono accomodato tra lo scaffale dedicato al mito e quello destinata ai giochi. Vedi te, alle volte.
Mito, storie, fiabe, folklore e tutta quella roba lì mi hanno sempre affascinato, fin da bambino (non che la cosa mi renda particolarmente speciale): vuoi per le fiabe sonore a 45 giri che le mie zie usavano per sedarmi, vuoi perché a casa avevo libero accesso a un tomo dell’enciclopedia Rizzoli/Larousse interamente dedicato alla mitologia, con dentro gli dei dell’antica Grecia (70%), i nordici (20%), nonché quelli di India, Africa, Russia, Cina e Giappone (costretti a litigarsi l’ultimo 10% del librone, con tutto che, volendo, avrebbero potuto polverizzare il Sig. Rizzoli/Larousse in un nanosecondo).
Sempre in quegli anni, avevo accesso, pur con minore libertà, a un Commodore 64 a cui davo in pasto, tra le altre, le cassettine di Altered Beast, Ghouls 'n Ghosts, Myth, Black Tiger. Non tutti giochi di prima qualità, OK, ma andavo pazzo per il loro taglio mitologico: ancora non sapevo che il decennio successiva mi avrebbe fornito in ordine sparso il NES, lo SNES, un paio di Zelda, quattro o cinque Super Mario, i primi manga tradotti in italiano, I Cavalieri dello Zodiaco, Ken, le repliche dello sceneggiato di Ulisse sulla RAI e dozzine di altre cose che finivano sempre con l’agganciarsi al mito, a quel vecchio tomo, a storie di dei incazzati con gli eroi, di eroi incazzati con gli dei e di mostri giganti incazzati con tutti. In quella roba c’ero dentro fino al collo, e alla fine son cresciuto smontando e rimontando pezzetti di storie come fossero mattoncini LEGO, proseguendo con (poco) più discernimento durante i miei anni di studio, ragionando tra le altre cose sul rapporto tra mito, rito, teatro, letteratura, fumetti, cinema, serie TV e, soprattutto, videogiochi.
Quello che segue è un excursus da maestrina su queste connessioni, messo assieme un po’ a caso, partendo da una lezione che ho tenuto qualche tempo fa sull’argomento. Un excursus composto da concetti senz’altro disordinati o semplificati, ma che mi auguro possano risultare interessanti per chi, magari, gioca e ascolta storie da una vita senza essersi perso in vaneggiamenti.
Per parlare di videogiochi, mito, folklore e di tutte le robe che li legano, è necessario fare un passo indietro e osservare l’evoluzione della cultura popolare, laddove per popolare possiamo considerare - parafrasando una definizione bella che pronta - «l’aspirazione a un linguaggio versatile e condiviso». Alla base di un’opera popolare c'è l'applicazione di un linguaggio flessibile, capace di raccontare tutto e in tutte le maniere possibili, ma anche comprensibile dal maggior numero di persone. Il mito, il folklore e le fiabe sono esempi di cultura popolare, una cultura che in passato veniva trasmessa oralmente davanti ai falò e che successivamente si è accampata all’ombra di tutte le forme di narrazione note all’umanità. Oggi più che mai, mito e folklore sono dappertutto.
Per fare un esempio, prendiamo Il padrino (il film), che, al netto di tutti i fronzoli da mafia italo americana, racconta la storia di un uomo anziano tribolato per la spartizione del proprio potere tra i suoi figli (tre: legge della triplicazione). La tematica, di per sé, non è affatto originale; a esserlo, semmai, sono la sua particolare declinazione e le variazioni scelte da Coppola, ma la stessa struttura è presente in moltissime opere letterarie o cinematografiche. È presente ad esempio in Ran, di Akira Kurosawa, dove al posto di Don Vito troviamo il signore feudale Hidetora Ichimonji, afflitto dalle medesime rogne testamentarie. Sono piuttosto sicuro che Kurosawa e Coppola abbiano raccolto il testimone da Shakespeare e dal suo Re Lear, ma in realtà la tematica della divisione del potere e della successione è parecchio più antica. La ritroviamo già nell’antica Grecia, nel mito nella spartizione del potere di Crono tra gli Olimpi ribelli Zeus, Ade e Posidone, ma è persino più vecchia: se ne trova traccia nelle leggende di re della civiltà minoica, ma sarei pronto a scommettere che parta ancora prima, tra i falò di qualche tribù all’alba dell’umanità.
Il punto, però, non è l’origine. Quella non è poi così importante; a essere interessanti sono il perché e il percome, che in questo caso osservano l’ossessione dell’umanità per i concetti di lascito, successione e conservazione della memoria, al punto che, come specie, sentiamo la necessità di esorcizzarli attraverso racconti pucciati nell’epica, laddove il re o il dio di turno non sono che rappresentazioni altisonanti di genitori preoccupati.
Per chiarire ancora meglio il concetto e tirare in ballo il folklore (le fiabe), prendiamo un altro esempio: il ratto di Persefone. Il mito racconta di Persefone, figlia giovinetta di Demetra e Zeus rapita da Ade, dio dell'oltretomba, che intendeva sposarla con la forza. Come spesso succede, dopo l’iniziale riluttanza (Ade è pur sempre un signore più vecchio di lei, oltre che sì, insomma, suo zio), la ragazza si arrende al fascino ombroso del rude fiancè, e l’idea di diventare regina di tutto l’amabaradan infernale comincia a non dispiacerle più di tanto. Per sfogare con discrezione questo cedimento, si ciba inavvertitamente di un seme di melograno che la “corrompe”, legandola infine ad Ade.
Ora, non serve un genio per capire che la faccenda del melograno rimanda al matrimonio e alla fertilità, e che l’intero mito di Persefone rappresenta (eludendo altri numerosi significati) l’iniziazione delle fanciulle alle gioie e ai doveri dell’età adulta e la scoperta dell’altro sesso. Questo racconto mitologico, che molto probabilmente possiede anche in questo caso radici più antiche, col tempo si è sciolto in tutte le tipologie di fiabe accomunate da ragazze imprigionate da antagonisti dai tratti orcheschi (il termine “orco”, nella tradizione letteraria, viene anche utilizzato per indicare l’Ade inteso come luogo, e il Tartaro). Quella più diffusa e vicina al mito di partenza è probabilmente Raperonzolo. Attraverso l’analisi di raccolte folkloriche come Il Pentamerone di Giambattista Basile o le Fiabe italiane di Italo Calvino, è apparso diffusissimo il nesso tra la presenza dell’orco e il motivo di Raperonzolo/a, che nella cultura popolare ha finito col rappresentare il principale archetipo di fanciulla rapita. Il cinema ha approcciato numerose volte la storia, in chiave sia diretta che indiretta. Nel primo caso segnalo il recente lungometraggio Disney, Rapunzel, e il segmento della principessa e dell’orco ne Il racconto dei racconti di Garrone, ispirato alla raccolta di Basile.
Più interessanti sono le rappresentazioni meno letterali. Il labirinto del fauno, di Guillermo del Toro, è fortemente legato al ratto di Persefone e a Raperonzolo: la protagonista, Ofelia, per sfuggire a una realtà dolorosa si rifugia in un contesto fantastico nel quale è nientemeno che la principessa del mondo sotterraneo. Nel film è altresì presente il motivo del cibo proibito, laddove un chicco d’uva prende il posto del melograno.
Frugando qua e là, possiamo incappare in declinazioni ancora più curiose e insospettabili, come il film d’animazione Up. Il lungometraggio Pixar si allaccia al mito di Orfeo e Euridice - che è a sua volta una sorta di “riduzione” umana del ratto di Persefone - evocando una catabasi, ossia una discesa negli inferi. Il protagonista, l’anziano Carl Fredricksen, cerca per tutto il film un ricongiungimento simbolico con la moglie defunta Ellie, ma viene ostacolato a più riprese da un antagonista luciferino, quasi sempre rappresentato prossimo a simboli di morte (scheletri, fiamme) e servito da un gruppo di cani che ricordano Cerbero e Anubis, la divinità egizia che presiede il mondo dei defunti.
Questi sono solo un paio di esempi, ma ad aver tempo e voglia potrei continuare per ore, tirando in ballo film o registi più o meno noti che sulle rielaborazioni del mito hanno costruito la propria poetica. Quindi, in definitiva, perché il mito e le fiabe sono così importanti per la narrativa popolare? Perché, come osserva Jung, gli archetipi del mito sono ricorrenti in molte culture, appartengono all’inconscio di tutta l’umanità, e per questo funzionano bene. Negli anni fior di studiosi hanno cercato di analizzare la faccenda da moltissimi punti di vista. Tra tutti, i più autorevoli sono forse quelli afferenti alla scuola finnica, con in testa Antti Aarne e Stith Thompson, che utilizzando il metodo storico-geografico, hanno dato vita a un gigantesco indice di varianti di racconti folklorici e mitologici, il motif index, classificando centinaia di trame standard composte da tipi e motivi più o meno ricorrenti, nella speranza di identificare il luogo d’origine e gli spostamenti di ciascuno.
Sempre frugando tra gli studiosi, sarebbe impossibile (e molto maleducato) tralasciare Vladimir Propp, linguista e antropologo russo che ha identificato nelle storie di magia una serie di elementi costanti e altri variabili: cambiano i nomi dei personaggi, ma non le azioni, dette “funzioni”. Le funzioni, per Propp, sono in numero limitato di trentuno (allontanamento, divieto, infrazione, ricognizione, ottenimento, raggiro, connivenza, danneggiamento o mancanza, mediazione, consenso, partenza, funzione del donatore, reazione dell'eroe, fornitura dell'oggetto magico, trasferimento, lotta, marchiatura, vittoria, rimozione, ritorno, persecuzione, salvataggio, arrivo in incognito, pretese infondate, prova, superamento, identificazione, smascheramento, trasfigurazione, punizione, matrimonio o incoronazione); anche i personaggi o, meglio, i loro ruoli, sono in numero limitato di sette (aggressore, donatore, aiutante, principessa e suo padre, colui che invia l’eroe, il falso eroe). Funzioni e personaggi si mescolano, originando variazioni, eppure per Propp all’origine di tutte le storie ci sarebbe un unico nucleo narrativo: il rapimento della principessa da parte del drago, classificato dai finnici di qui sopra come “AT300”, che è a sua volta una variante della solita ragazza incastrata dal bruto. Ora, tutti questi studiosi uno potrebbe immaginarseli come signori polverosi e moderati, ma invece pare fossero una masnada di nerd allucinanti, pronti a difendere le proprie posizioni con i denti, tant’è che le cronache dei convegni sul folklore e il mito riportano storie di vere e proprie risse (che hanno generato a loro volta il cliché narrativo “Trekker vs. Star Wars” raccontato così bene dal film Fanboys).
Comunque, nel corso degli anni, narratori, registi e sceneggiatori hanno tenuto d’occhio gli studi sul mito e sul folklore per cercare di mettere a fuoco le strutture narrative più efficienti in termini di coinvolgimento, con l’idea di creare delle vere e proprie ricette. Gente come Milius, Spielberg, Lucas, Coppola, Zemeckis, Dante, i “movie brats” della Hollywood anni ‘70 e ‘80, che tutta questa faccenda l’hanno sviscerata. Molti di loro provengono dal vivaio della UCLA, dove il mito era ed è materia di studio nei corsi di cinema, grazie anche al lavoro di Christopher Vogler, che partendo dalle tesi dello storico delle religioni Joseph Campbell e da quelle di Propp, ha mostrato a Hollywood come smontare e rimontare i pezzetti di storie attraverso Il viaggio dell’eroe, un vero e proprio manuale per sceneggiatori o aspiranti tali. Indiana Jones, Ritorno al futuro, Conan o Star Wars sono pieni zeppi delle tesi di Vogler, così come lo sono anche opere più introspettive e “serie” come Schindler’s List o Munich: è bene ricordare che il viaggio dell’eroe, con le sue tappe e i suoi ruoli, funziona anche in chiave di viaggio interiore. Partendo dalla letteratura e dal cinema, le teorie di Vogler e compagnia hanno poi influenzato gli sceneggiatori di serie TV (che hanno imparato a gestirle sui tempi lunghi) e quelli di videogiochi: a questo proposito, segnalo una lettura interessante, che affronta la faccenda pur partendo da un argomento d’indagine diverso. Tra l’altro, dopo tanto cianciare, finalmente si parla di videogiochi.
Come il cinema, i fumetti e la letteratura, anche i videogiochi sono ricchi di elementi mitologici e folklorici. Del resto, sono un tassello cruciale della cultura popolare contemporanea e hanno ereditato moltissimi elementi dai vecchi racconti tribali attorno al fuoco, a cominciare dall’auditorio irrequieto e mai contento che nel corso dei secoli si è trasferito dalle caverne a internet, mantenendo comunque intatta la propria funzione di scassacazzo.
Per osservare qualche esempio di tematica mitologica nei videogiochi, basta prendere la saga di Metal Gear, che ripropone l’ormai nota divisione del potere tra un sovrano (Big Boss) e i suoi tre figli (Solid, Liquid e Solidus). Ma quella de Il padrino non è la sola tematica su base classica ospitata dai lavori di Kojima, che rielaborano tra le altre cose la successione al trono attraverso la sconfitta/parricidio tanto amata dai Greci (Crono vs. Urano, Zeus vs. Crono, Edipo vs. Laio e via dicendo), o il motivo dell’eroe e del tiranno, presente nel mito, nel folklore ma anche in tanta letteratura (ad esempio nelle tragedie di Vittorio Alfieri, come il Saul, ma anche nell’anime Tengen Toppa Gurren Lagann): alla base di questa tematica, c’è un eroe che si ribella a uno status quo sostituendolo con un nuovo ordine, ordine che giocoforza finirà col corrompersi, trasformando a sua volta il vecchio eroe in un nuovo tiranno, e così via; per afferrare il nesso è sufficiente osservare gli esiti del rapporto tra The Boss e Naked Snake, ereditato da Solid & Big Boss. E pure qui, ad aver voglia, ci sarebbe di che approfondire.
Per quanto riguarda invece la figura dell’orco/Ade/rapitore di fanciulle, beh, le declinazioni videoludiche sono moltissime e fanno il paio con quelle dei libri o dei film:
Propp aveva ragione: il motivo della principessa rapita dal drago (AT300) è davvero importante. Perché?
Perché rappresenta un nucleo narrativo forte, semplice e solido, su cui è possibile sviluppare moltissime storie; storie chiare, nette, perfette per accompagnare l’azione dei primi coin-op.
Perché fa leva sulle paure e sui desideri del genere umano: tutti quanti temiamo di perdere i nostri cari, ma qualche volta finiamo per diventare noi stessi “rapitori”, magari spinti da motivazioni che riteniamo giuste.
Perché sta bene con qualsiasi vestito: il rapitore può essere drago, mostro marino, orco, tiranno, strega o stregone, e a sua volta l’eroe diventare cavaliere, pirata, marine dello spazio o esperto di arti marziali. Inoltre, il motivo è flessibile in termini di immedesimazione, e non è unidirezionale: esistono varianti in cui l’eroe è una ragazza e affronta mille pericoli per ricongiungersi con l’amato; ma il gioco vale anche quando ci sono di mezzo amici o famigliari.
Eppure, rispetto a cinema, libri o fumetti, i videogiochi hanno una marcia in più. Oltre a servirsi del mito per costruire storie, possono prendere in prestito elementi dal rito, laddove per rito si intende un insieme di azioni rigidamente codificate, strettamente connesse con la sfera del sacro. Il rito, insomma, attraverso la rappresentazione descrive e fa rivivere il mito, anche se secondo la teoria ritualistica di origine delle fiabe sarebbe vero anche il contrario: il mito rappresenterebbe l’esegesi di un rito. Miti e fiabe, insomma, sarebbero illustrazioni di riti a loro precedenti. Alcune fiabe (Cappuccetto rosso, Cenerentola) rappresenterebbero dei rituali stagionali, mentre altre (Barbablù, Pollicino) dei rituali iniziatici. In Barbablù, per esempio, è presente il motivo della stanza vietata, che veniva chiamata “la casa degli uomini” nelle società primitive ed era vietata alle donne e ai non iniziati. Lo stesso Barbablù corrisponderebbe al personaggio che dirige il rito d’iniziazione minacciando di morte i neofiti, mentre i cadaveri appesi richiamano le ossa dei capi defunti conservate, appunto, nella casa degli uomini. Questa diatriba riguardo la precedenza tra mito e rito è un po’ come quella dell’uovo e della gallina, e pare rappresentasse uno dei principali motivi di lite nei convegni di cui si diceva sopra.
In tutto questo, i videogiochi, attraverso la componente interattiva e quella audiovisiva, fondono il rito (gameplay) con il mito (storia), e quando la trama dialoga coerentemente con il suo gameplay, si possono raggiungere risultati eccezionali in termini di efficienza e coinvolgimento.
Questa prerogativa avvicina parecchio i videogame al teatro, che soprattutto nell’antichità possedeva una fortissima carica rituale e religiosa (e per certi versi la possiede ancora oggi). Così come il rito e il teatro accendevano il mito attraverso la rappresentazione, un videogioco prende vita quando ci si gioca; in entrambi i casi, ogni performance è unica irripetibile e porta sempre qualche variazione nel testo. L’officiante di un rito era solito fornire ai suoi praticanti regole e contesti; a tirare un po’ la corda, si potrebbe dire che in fondo i game designer non sono su una barca troppo diversa, e in effetti sono parecchi i giochi che pescano nel rito. Uno dei primi e più famosi è probabilmente Pac-Man di Iwatani, che a fianco del noto protagonista e dei fantasmini schiera un terzo personaggio chiave: il labirinto.
Il labirinto, come osserva bene Francesco Alinovi in Game start!, è una struttura archetipica, rimanda al mito del Minotauro, al serpente, e in passato era fortemente legato a riti iniziatici e all’ingresso nell’età adulta. Era inoltre presente nelle cattedrali medioevali come percorso di preghiera e purificazione, e ha finito con l’abbracciare la dimensione ludica durante il Rinascimento attraverso i giardini all’italiana. Questo concetto ha servito bene film come Shining o Prisoners e, sempre restando nei videogiochi oltre a Pac-Man, strutture di tipo labirintico sono presenti nel level design di moltissimi titoli, proprio perché il labirinto stesso rappresenta uno spazio problematico tutto da decifrare, ricco di sfide che necessitano di essere risolte.
Labirinti particolarmente riusciti ed eleganti sono stati tessuti nel world design di giochi come Metroid, Castlevania: Symphony of the Night, Dark Souls, Bloodborne, e naturalmente nei lavori di Fumito Ueda, che li riconsegnano alla loro mistica originale. Penso a ICO, ma soprattutto a Shadow of the Colossus, che è sostanzialmente un labirinto costruito sopra a un labirinto con dentro un altro labirinto, dove al posto del filo di Arianna ci si orienta con la luce di una spada. Se ci si riflette sopra, è un labirinto l’intero mondo di gioco, sono labirintiche le aree di accesso ai vari colossi e sono labirintici in senso lato persino i colossi, che necessitano di essere decifrati per averne ragione. Senza contare che il primo colosso ha le sembianze di un vero e proprio minotauro, giusto per mettere subito le cose in chiaro. Shadow of the Colossus rappresenta un rituale di resurrezione dall’inizio alla fine, messo in atto dall’anonimo protagonista e conseguentemente dal giocatore attraverso un tributo di sangue - il massacro dei bestioni - richiesto da Dormin, nome a sua volta specchiato dal Nimrod biblico a cui viene attribuita tradizionalmente la costruzione della Torre di Babele. Insomma, più di così non avrei saputo davvero che altro metterci.
Un altro buon gioco ricchissimo di elementi vicini al sacro è From Dust, di Eric Chahi, dove il giocatore passa da celebrante a celebrato, impersonando un dio benevolo impegnato a seguire il proprio popolo lungo un set di scenari che, presi tutti assieme, costituiscono un vero e proprio rito di fondazione. A fianco del gameplay vero e proprio, From Dust propone un’esperienza contemplativa e poetica che offre il meglio quando si zooma verso i nostri fedeli omini per vedere cosa combinano (perlopiù pregano).
Preferisco citare From Dust al posto dei vari Populous, perché trovo che ci azzecchi meglio con i miei vaneggiamenti, oltre a permettermi di tracciare un collegamento interessante che avrebbe fatto contenti i finnici del metodo storico-geografico: il lavoro più noto di Chahi è probabilmente Another World, del 1991, che pare sia stato fra le principali fonti di ispirazione per i lavori di Ueda. A ben guardare, Another World, ICO e Shadow of the Colossus condividono quel non so che di malinconico nella vena narrativa, oltre alla pulizia di ambientazioni e interfaccia e diversi elementi di gameplay.
Proseguendo con la lista, infilerei nella cesta anche le avventure grafiche, soprattutto quelle sviluppate durante gli anni Ottanta e Novanta: vuoi perché la loro struttura basata sull’alternanza tra enigmi e scenette mi pare in linea con tutto il discorso, ma soprattutto perché a livello visivo proponevano degli scenari statici o semi-statici affini a quelli del teatro, per quanto filtrati dall’estetica televisiva. Di nuovo teatro, di nuovo rito. In una delle sequenze di Indiana Jones and the Fate of Atlantis (quella in cui viene introdotto il personaggio di Sophia Hapgood, se non ricordo male) questa meta-pippa viene espressa piuttosto bene, ma emerge ancora meglio nel finale di Monkey Island 2, che tra l’altro è ricco di elementi vudù. Durante la sua sfida finale con LeChuck, Guybrush è chiamato a compiere un vero e proprio rituale per attraversare la soglia di un mondo “altro”, in quello che in molti ritengono uno dei migliori finali della storia dei videogiochi.
Guardando altrove, oggi la scena indie rappresenta un fantastico vivaio per i game designer attratti dalle meccaniche rituali. Uno dei titoli indipendenti più interessanti ai fini del mio discorso è probabilmente Don't Look Back di Terry Cavanagh, un platform/run ‘n gun che rilegge piuttosto bene il mito di Orfeo e Euridice. La chiave del mito in questione gira sul divieto di voltarsi, conseguentemente presente anche in alcuni rituali e in diversi giochi tradizionali (Un, due, tre, stella!, nascondino). In Don’t Look Back, Cavanagh la ripropone con molto eleganza facendone il fulcro del gameplay: in pratica, dopo aver recuperato l’amata, il protagonista è obbligato ad affrontare tutti i quadri di gioco al contrario senza potersi voltare. Il level design specchiato diventa così il simbolo delle difficoltà di Orfeo, e rappresenta una perfetta fusione tra mito e rito.
Vorrei chiudere il mio discorso con due casi piuttosto diversi tra loro: il primo è una specie di monito alle troppe seghe mentali in cui possono incorrere i cacciatori di analogie (soprattutto il sottoscritto); il secondo, invece, è l’applicazione perfetta di “game design rituale”.
Il primo esempio riguarda il classico picchiaduro Double Dragon, che contiene per puro caso tracce del motivo folklorico noto come “La storia di due fratelli”. Molte versioni della fiaba (spolverata anche da Garrone nel già citato Racconto dei racconti) raccontano di due fratelli: uno parte in cerca di avventure, l’altro rimane a casa ma resta al corrente delle sorti del primo attraverso un elemento segnaletico che cambia di versione in versione (una fonte che si esaurisce, un fiore che sfiorisce e via dicendo). Sovrainterpretando, si direbbe che qualcosa di simile avvenga anche in Double Dragon, considerato che la barra della salute di ciascun avatar è visibile da entrambi i giocatori. Inoltre, c’è un’ulteriore elemento curioso: “La storia dei due fratelli” è uno dei primi esempi di racconto proveniente dall’antico Egitto (è presente su un papiro risalente XIII a. C.). Il terzo episodio di Double Dragon, The Rosetta Stone, è ambientato proprio nella terra dei faraoni ed è ricco di mitologia egizia. Anche se il motivo in questione nel corso degli anni è stato ripreso da altre opere provenienti dal Sol Levante (i lettori di One Piece ricorderanno sicuramente tutta la faccenda della Vivre Card che Ace dona a Rufy), quasi sicuramente la sua presenza in Double Dragon è del tutto casuale, o comunque non intenzionale da parte dei designer di Technos e East Technology, anche se pensare a un collegamento è sempre una forte tentazione: i tasselli di mito e rito viaggiano per il mondo senza controllo, e possono influenzare gli autori nei modi più disparati. In genere, per dare un freno alle sparate cerco di non scordare la lezione del Pendolo di Focault di Eco, che mette in guardia da analogie facili e brutte tentazioni.
Al polo opposto sta la serie The Legend of Zelda, che sin dagli esordi è intimamente e programmaticamente connessa con mito e rito . Lo prova il fatto che, per certi versi, racconta e rielabora sempre la stessa storia, checché ne dicano i fanatici delle timeline (o Nintendo stessa). Nell’episodio Skyward Sword, del 2011, è presente una sequenza che chiarisce con grande efficacia il rapporto ideale tra game design, mito e rito.
A guardarla con gli occhi dell’appassionato di folklore (o del maniaco sessuale), l’intera sequenza rappresenta un rituale di iniziazione diviso in due parti che rimandano continuamente alla sfera sessuale.
Nella prima parte Link sfida altri iniziandi per accedere alla presenza della fanciulla e guadagnare il manto magico della dea, mentre nella seconda parte, dopo aver avuto la meglio sugli avversari, al futuro eroe tocca affrontare una prova imposta dalla ragazza all’ombra della statua della dea Hylia, che è una rivisitazione della “Grande Madre”, simbolo di fertilità, e di cui la stessa Zelda nell’economia del gioco rappresenterebbe una sorta di “avatar”.
Gli aspetti sessuali evocati dal rituale sono abbastanza evidenti: la corsa con i solcanubi, il ruolo di Zelda e la scena dell’atterraggio sottintendono l’atto sessuale e la fecondazione. I pennuti sono sufficientemente fallici da solleticare fantasie freudiane, mentre tutta la parte di Link impegnato a fare centro col paracadute potrebbe finire tranquillamente in un ipotetico remake di Gola profonda. Una sequenza del genere rivela una tale consapevolezza della materia che è molto difficile pensare a un caso: gli autori hanno evidentemente attinto alla sfera mitologica e rituale (oltre che a quella psicologica/sessuale) per aumentare l’impatto della loro opera sul giocatore, che volente o nolente si troverà a percepire l’eco di tutte queste cose mescolate assieme senza necessariamente identificarle una per una (che è pure meglio), a dimostrazione che mito e rito, nelle mani di autori competenti, possono rivelarsi ferri di game design potentissimi.