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Con Switch diventa tutto più bello

La prima volta che ho incrociato lo spot di Switch, l’ottobre dell’anno scorso, non ero poi così gasato. Per carità, l’idea mi stuzzicava, l’estetica della console pure. Tuttavia il flop di Wii U era ancora nell’aria e la paraculaggine di quel filmato, unita alle situazioni poco realistiche, era un po’ meh. Voglio dire: la tizia asociale con la frangetta che diventa la star dell’apericena in terrazza solo grazie a Switch? Davvero? I ragazzotti che si mettono a giocare tutti assieme dopo la partitella a Basket? Ma fatevi una doccia! Il tizio che stacca un biglietto aereo andata/ritorno solo per menarsela con i giochini? Stai a casa e lascia il posto a ne chi ha davvero bisogno, per Dio.

La situazione ha cominciato a prendere una piega più interessante verso febbraio, quando ho accompagnato una persona anziana allo showcase milanese organizzato da Nintendo per far toccare con mano ai fanz la nuova console. A vederla così, nella sua versione con i Joy-Con colorati al neon (se li avete presi neri siete persone aride) e con spalmate addosso le demo di Zelda: Breath of the Wild e di Mario Kart 8 Deluxe, assieme con la mungitura di vacca e le scemenzuole (divertentissime) di 1-2 Switch, già avevo deciso di prenderla, ‘sta benedetta console, con la debita eccezione di Ultra Street Fighter II, con quella sua grafica color pacco (spoiler: alla fine mi sono bevuto pure quello).

«Ditemi perché se la mucca fa mu il merlo non fa me».

Ecco, forse non proprio al lancio. Ma di prenderla, sì. Se non fosse che alla fine, dato che sono bovinamente schiavo del marketing e da qualche anno a questa parte pure un early-adopter, lo scorso 3 marzo sono salito a bordo della mia bella macchinetta, ho guidato fino al punto vendita più vicino di una nota catena di giochini e tosto me sono uscito con, nell’ordine: Switch taglia neon; l’immancabile Pro Controller, per non sentirmi inferiore al tizio figo dello spot; una custodia (non originale); la mia brava copia di The Legend of Zelda: Breath of the Wild. Sono un coglione? Sono un coglione.

Ma perlomeno un coglione felice.

«Un figlio di puttana sorridente».

Perché davvero, nonostante PlayStation VR e tutto il resto, questo 2017 è stato per me l’anno di Switch. La consolina Nintendo merita a tutti gli effetti il mio titolo di gioco dell’anno; ma proprio gioco inteso nel senso di giocattolo. Materiale, fisico. Prima del software, delle specifiche e della versatilità della suddetta macchina, a colpirmi sono stati la vista e soprattutto il tatto. Switch (ovviamente sempre e solo nella sua accezione al neon) è un oggetto-console talmente bello come non se ne vedevano dai tempi del GameCube. Non un semplice scatolone/videoregistratore/hi-fi come quelli fabbricati da Microsoft. Nossignore. Né una fighettata futurista in stile impero-colpisce-ancora come quelli di Sony. Qui abbiamo a che fare con un oggettino leggero, sottile, dal design elegantissimo. Bello da toccare, da sfiorare, da possedere, da mostrare con orgoglio e eventualmente da lucidare tra una sessione di gioco e l’altra, stando bene attenti a non graffiarlo per eccesso di zelo.

Switch è stata anche la console che mi ha accompagnato mano sul culo lungo tutte le stagioni dell’ultimo anno. A cominciare dalla primavera, con l’inebriante Zelda: Breath of the Wild, che mi ha incatenato al controller per settimane fino alle tre o alle quattro del mattino, sempre in compagnia di altri giocatori della mia pur limitata lista di amici: a qualsiasi ora potevo contare sulla presenza silenziosa ma conciliante degli avatar di Ugo Laviano, di Talarico, di Babich. Di gente, insomma, che mi faceva sentire meno coglione a svegliare la console alle sei del mattino per fare una partita al volo prima che facesse giorno, dopo essermi addormentato appena un paio d’ore prima nel ristoro del Borgo dei Rito. Parlando di Breath of the Wild, ammetto che si tratta anche del mio gioco preferito del 2017 inteso in termini di videogioco. Volevo pure scriverne, ma alla fine il caso e la velocità di reazione di Pocoto mi hanno fregato. Pazienza.

Comunque, dopo aver speso più di duecento ore dietro a Zelda, ho dovuto abbassare un po’ la pressione attraverso il remake di Wonder Boy III: The Dragon's Trap, realizzato da Lizardcube con un meraviglioso reskin applicato su una variante «emulata e patchata viulentemente» del codice originale (con la possibilità di evocare in qualsiasi momento la versione del 1989, però), e quel pasticciaccio brutto di Ultra Street Fighter II: The Final Challengers, con quella schifissima reskin di UDON applicata non si sa bene dove, non si sa bene come, ma soprattutto perché (con l’impossibilità di evocare in qualsiasi momento la versione del 1994, se non rilanciando il gioco di volta in volta, puah!).

L’estate di contro è sbocciata con Mario Kart 8 Deluxe, che oltre ad avermi procurato sfiziosissime sfide in doppio al baretto, ha avuto il merito di riconciliare il mio amico Donald con i videogiochi.

«Sole, whisky e sei in pole position!»

Donald, che non giocava dai tempi del Super Nintendo (all’epoca gli avevo gentilmente ceduto la mia console aggratis), ha passato quasi interamente la vacanza tra le spiagge dell’odiata Toscana imboscato all’ombra della sua spelonca Quechua, a dannarsi come un ossesso sulla mia console alle prese col racing di Nintendo, ritrovando quel gameplay così bello e cremoso esattamente come lo aveva lasciato venticinque anni prima. Tra l’altro, quando ho voluto immortalare l’evento con una scatto condiviso su Facebook, sono fioccati commenti tipo: «Una console in spiaggia con tutta quella sabbia: sono angosciato!». Oh, se al prezzo di un graffietto sullo schermino di Switch posso riavvicinare qualcuno ai giochini, vaffanculo! Oggi Donald è infatti il felice possessore di una PlayStation 4, grazie a Nintendo e alla sua insolvenza nei confronti dell’app di Netflix.

Un graffietto, che sarà mai?

Eppure, incredibilmente, l’estate 2017 non rimarrà negli annali del videoludere nostrano solo per la storia d’amore tra Donald & Mario Kart 8, ma anche per la presenza del team di Ubisoft Milano - ampiamente rappresento tra le fila di Outcast - all’E3 per la COMMOVENTE presentazione di Mario + Rabbids Kingdom Battle, il gioco che ha dimostrato al mondo intero che, sì:

«E vaffanculo, crucchi demmerda! Due a zero a casa vostra! Grosso, Del Piero. Popopopopopopo! Popopopopopopo!»

Comunque, dietro a tutta la sincera esaltazione per i miei connazionali e la partecipazione al carrozzone, ché davvero, per chi pratica i videogiochi, vedere quella scena lì all’E3 con Soliani e Miyamoto assieme è stato un po’ come vincere il Campionato mondiale di calcio, mi rincresce ammettere che non ho ancora giocato a Mario + Rabbids Kingdom Battle per una mia - del tutto presunta - incompatibilità col genere. Qualche giorno fa, un anonimo membro del team di sviluppo mi ha fatto notare che aver paura di Mario + Rabbids è effettivamente un po’ una minchiata, «Sarebbe come dire che uno senza patente ha paura di giocare a Mario Kart».

Rimedierò (fermo restando che sicuramente le casse di Ubi non hanno risentito della mia mancanza).

Per fortuna, comunque, non è toccato a me recensire il detto gioco per Outcast, ma a Giuseppe Colaneri, il cui pezzo è stato plaudito da tutto il Web per la sagacia e il sopraffino occhio critico, guadagnando al nostro le lodi più sincere da parte del direttore creativo, Davide Soliani.

Tra l’altro, per ragioni che ancora mi sfuggono e pur avendolo preso il giorno dell’uscita, non sono riuscito a ingranare a dovere nemmeno con Super Mario Odyssey. Il gioco è naturalmente straordinario, bellissimo e libero come l’aria, eppure non mi calza. Sicuramente è un problema mio. Forse non ho ancora smaltito i postumi della sbornia da Zelda. Oppure, dopo tanti anni di Marii in due dimensioni o in treddì più strutturati di questo, ho bisogno di farci il callo.

Così, alla fine, anziché dedicarmi come avrei voluto al ritorno in Italia dell’idraulico con i baffi e alla sua successiva Odissea - tra l’altro, quanto suona strana questa coincidenza? Soprattutto, non sarebbe stato più sensato anteporre l’Odissea al ritorno a casa? - ho passato il mio tempo con la concorrenza storica, ossia con Sonic Mania, oltre che con Teslagrad, Oxenfree, Snake Pass e financo Thimbleweed Parkche mi sono ricomprato per la console Nintendo pur avendolo già preso per Xbox One. Un po’ perché sono stronzo, ma soprattutto perché qualsiasi gioco, su Switch, diventa più bello. Il semplice fatto di potersela spassare a casa, in treno o all’aperto è un valore aggiunto che dal mio punto di vista supera i 4K, i 60 e rotti fps e persino la realtà virtuale.

Per queste e altre ragioni, Switch è stato il mio gioco dell’anno 2017, sì, ma è pure già entrato nella scuderia delle mie “console della vita”, insieme con il Game Boy, il Super Nintendo, il Nintendo 64, la prima PlayStation e persino l’Amiga (che per me conta come console). E credo che se fossi un ragazzino del giorno d’oggi, difficilmente potrei desiderare strenna migliore da scartare a Natale: altro che quei giochi lì moderni e senza cuore per ul tablet e per ul telefünit.

«E anche questo Natale...».

Questo articolo fa parte della Cover Story "I (nostri) migliori anni del videogioco", che trovate riepilogata a questo indirizzo.