Outcast

View Original

La resurrezione pasticciata di American horror Story: Roanoke

Uno fra gli aspetti che apprezzo di più delle serie TV antologiche è il loro essere sostanzialmente slegate da una stagione all’altra. In questo modo, gli sceneggiatori sono meno vincolati dal lavoro svolto, da loro o da terzi, in passato, e possono concentrarsi su un unico plot da sviluppare poi in modo più indipendente. Inoltre, fattore non meno importante, lo spettatore può cominciare una stagione senza aver necessariamente seguito quelle precedenti; ché è nella fattispecie la situazione in cui mi sono ritrovato seguendo la sesta stagione di American Horror Story, una serie TV di cui fino a qualche mese fa conoscevo solo le coordinate base.

Prodotto da FX, è uno dei lavori più noti di Ryan Murphy, che dopo essersi fatto conoscere dal grande pubblico con Nip/Tuck e Glee, ha deciso di cambiare decisamente rotta, proponendo qualcosa che cercasse a modo proprio di reinventare l’horror nella serialità televisiva: American Horror Story, appunto. Dopo due/tre stagioni, contraddistinte un elevato apprezzamento sia di pubblico che di critica, un po’ tutti erano concordi sul fatto che la serie stesse andando avanti quasi per inerzia, con poche idee e quasi tutte mal realizzate. E così io, che da American Horror Story mi sono sempre tenuto distante per una serie di casualità, nei mesi scorsi mi sono cimentato nella sesta stagione, definita da Murphy, dopo alcune annate non esattamente brillanti, come innovativa, fantasmagorica, frechete e tutti quegli aggettivi di rito che di solito si usano in queste circostanze. Sarà vero?

Di certo c’è che parlare di una stagione come questa, indipendentemente che si sia fan o meno della serie TV, è davvero difficile. Questo perché Roanoke, sottotitolo di quest’ultima stagione e nome della colonia dov’è ambientata, presenta diversi registri stilistici che si sviluppano, quasi a compartimenti stagni, nell’arco delle dieci puntate che compongono la suddetta stagione (tre in meno rispetto alle precedenti). Cerco di essere più chiaro, tentando di non sfociare nello spoiler: i primi cinque episodi di Roanoke si strutturano ricalcando uno dei modelli stilistico-narrativi horror più inflazionati dalla fine degli anni ’90 ad oggi, cioè quello dei mockumentary, i falsi documentari.

C’è meno lag in questa seduta spiritica che in una videoconferenza con Alessandro Di Romolo.

La storia, nelle premesse, è abbastanza semplice e, se vogliamo, anche un po’ stereotipata: per riuscire a superare una tipica crisi di coppia, due trentenni decidono di acquistare una magione, vecchia più di quattro secoli, situata nel bel mezzo di una sperduta foresta nel North Carolina. Ovviamente la situazione degenererà di lì a poco, ricordando a più riprese, soprattutto per il taglio stilistico, The Blair Witch Project. E dopo queste cinque puntate, che succede? Cambia la tecnica stilistica, come già accennato, ma cambia anche la storia narrata, che si interrompe per poi riprendere, andando però in un’altra direzione. Di nuovo, cerco di non fare spoiler e al tempo stesso di essere chiaro: in pratica è come se si concludesse un atto, che poi prosegue, in termini di trama, andando però completamente in un’altra direzione.

Patto Soros: una folle notte d’amore con Sarah Paulson nella tenuta di Roanoke. Io accetto subito.

Si tratta di un cambio in corsa sì netto, ma che comunque non crea chissà quali shock nello spettatore. Io, ad esempio, dopo lo spiazzamento iniziale, ero anzi invogliato a vedere come si sarebbero messe le cose, come si sarebbe evoluta Roanoke, che dalla sesta puntata alla nona cambia completamente le carte in tavola, diventando sostanzialmente un found footage sulla scia dei vari Paranomal Activity (e, sì, anche del già citato The Blair Witch Project). E il risultato è, a dispetto delle premesse apparentemente sconclusionate, davvero convincente. Nonostante qualche cliché di troppo ed un paio di jumpscare telefonati, Roanoke riesce comunque a mantenere vivo l’interesse nello spettatore.

Trait d’union, ed elemento chiave che permette ciò, è l’ambientazione. Durante l’arco delle dieci puntate, riesce infatti ad instaurarsi fra il pubblico e la magione un rapporto quasi perverso; lo spettatore impara a conoscere ogni angolo, ogni aspetto di quella casa, attraversando la sua evoluzione grazie a varie lenti, rappresentate dai rispettivi stili adottati durante lo scorrere degli eventi. Questo grazie non solo ad una sceneggiatura che riesce ad esaltare il senso di piacevole claustrofobia impresso in ogni scorcio, scoperchiando poi pian pianino segreti sempre più sconvolgenti, ma anche all’ottima caratterizzazione che permea la mitologia attorno alla quale Roanoke è costruita, a partire dai personaggi, che vivono questa piccola frazione di terra per finire con tutta la simbologia che la circonda.

La macellaia, principale villain di Roanoke, nonché cuoca personale di Giuseppe Cruciani.

Purtroppo non è tutto oro quel che luccica. Dalla nona puntata in poi, si diceva, il registro stilistico-narrativo cambia ulteriormente, svestendo i panni del found footage ed indossando rapidamente quelli del reality, per poi assumere i connotati di un talk show e infine quelli di un normale telefilm. Ennesimo nuovo modo di rappresentare gli eventi a schermo in questo Roanoke, reso in quest’occasione in maniera anche piuttosto sbrigativa, finendo non solo per pasticciare con quanto precedentemente tratteggiato, ma risultando anche stucchevole per la forzatura con i quali tutto questo ambaradan di registri viene inserito.

Ovviamente, oltre allo stile, c’è un’ulteriore cambio anche in termini di narrazione, ma questo è il meno. Nel tentativo di lanciare una specie di denuncia, quella cioè della spettacolarizzazione della realtà sotto diversi aspetti (e che si esalta nella sua confezione da serie TV, in una sorta di meta-medium), Murphy e soci hanno finito con l’esagerare, buttando quasi alle ortiche quanto di buono fatto in una stagione come questa, che riesce comunque a riscattare il nome di American Horror Story. Non si sa se per mancanza di tempo o di mezzi, sta di fatto che un finale così sbrigativo e pasticciato non rende affatto giustizia ad una stagione come Roanoke, che ha comunque il merito di risultare godibilissima per quasi tutta la sua durata, nonostante non spicchi per originalità. Che poi, detto in franchezza, se mi garantite che tutte le stagioni di American Horror Story si attestano su questi livelli, vado comunque a recuperarmele di corsa.

Anche quest’ultima stagione di American Horror Story è stata trasmessa in Italia, a cadenza settimanale, da Fox, canale incluso nel pacchetto TV di Sky. La cosa divertente, se vogliamo, è che ogni nuovo episodio veniva trasmesso il venerdì in prima serata; tranne l’ultimo, che cascava il 23 dicembre ed è stato posticipato a Santo Stefano, per non rovinare, almeno in linea teorica, il clima natalizio. Buone feste!