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Virginia: cazzeggio a Nord-Est

Settembre 1991, uffici di Delphine Software International, che a dispetto del nome non sono niente di speciale. Il lead designer Paul Cuisset, un ragazzotto di nemmeno trent’anni, sta chiacchierando animatamente con i compari riguardo al finale di Twin Peaks, andato in onda la sera prima su LaCinq. Al netto delle discussioni pseudofilosofiche su contenuti e simboli, una cosa ha messo tutti d’accordo: la seconda stagione a un certo punto si è smosciata, OK, ma le ultime sequenze nella Loggia (spoiler!) sono state davvero fighe. “Pensate come sarebbe bello”, salta su un ragazzo con la coda di cavallo, “se nel nostro prossimo progetto riuscissimo a raccontare una roba del genere. In fondo Cruise for a Corpse non era mica tanto lontano, come taglio. Insomma, qualcosa si potrebbe abbozzare, e i racconti di misteri vanno una bomba”. “E se togliessimo gli enigmi?”, suggerisce un altro tizio, con gli occhi un po’ da folle, “potremmo provare a raccontare la storia senza infilarci i soliti puzzle. Una roba tipo film interattivo”. “See, bravò, e poi chi se la fila? Voglio dire, che combina per tutto il tempo il giocatore? Va a zonzo? Dialoga? Legge robe? Guarda che alla lunga si rompe il cazzo. No, dai, senza puzzle non può funzionare”.

Ecco, certe volte mi immagino che tutta la faccenda degli adventure sia andata più o meno così, con almeno una testa per studio che avrebbe voluto raccontare storie senza spalmarle sui puzzle, usando la narrazione come struttura, anziché come ricompensa. E invece niente, i tempi non erano maturi, il videogioco non era pronto a prendere le distanze da certe prassi, e magari non lo erano nemmeno gli utenti, chissà. Resta il fatto che mettere insieme una storia mediamente complessa senza infilarci qualche enigma è stato per anni una specie di tabù, al punto che quando i generi puri sono esplosi, le meccaniche degli adventure si sono incastrate addirittura negli action, come se la formuletta enigma/sciogliemento/scenetta fosse l’unica possibile per piegare il ritmo di gioco al racconto.

Poi, bum! Nel giro di pochi anni la situazione si è sbloccata, e proprio quando tutti le stavano sotterrando nell’orto del retrogaming, le avventure sono resuscitate con una nuova pelle. Lontane dai riflettori hanno guadagnato coraggio, consapevolezza, e si sono trasformate in veri e propri drammi interattivi, capaci di liberarsi del sarcofago che si portavano dietro. Penso alle robe di Cage o di Telltale, alla scena della Game Art (Every day the same dream), ma soprattutto a tutte le opere indie sbocciate di recente (Dear Esther, Firewatch, Gone Home, a modo suo anche Journey). Opere che hanno mischiato le carte in tavola, traghettando il genere verso una nuova era.

Virginia (e finalmente raggiungo l’oggetto di questa recensione), sviluppato dallo studio indipendente inglese Variable State, è forse l’esponente più radicale della filosofia “narrazione = struttura” che mi sia capitato tra le mani finora.

Il gioco è un “interactive period drama” in prima persona disegnato con una grafica low-poly godibile, per quanto un po’ troppo modaiola. Ho usato il termine “period” perché, esattamente come Gone Home o l’imminente Thimbleweed Park, Virginia si inscrive in quella rievocazione degli anni Novanta che a sua volte nasce dal riciclo venti/trentennale della cultura pop iniziato a metà Ottanta.

Il gioco firmato Variable State celebra il decennio dell’incertezza post-reaganiana, della controcultura incazzosa, del pessimismo e del rock alternativo. Pesca a piene mani da opere come Twin Peaks, X-Files o Il silenzio degli innocenti, stando bene attento a circolare nella vena sana del recupero, quella che non usa la nostalgia per aprire i portafogli dei trenta/quarantenni ma che, al contrario, celebra il passato come strumento critico e punto di partenza per fabbricare qualcosa di nuovo.

Ma se nel gioco dei Fullbright il viaggio nella memoria era sostanzialmente spaziale, architettonico e iconografico, in Virginia è ritmico e temporale. In Virginia l’avanzamento dinamico del racconto è tutto. È il gioco stesso. Qui il level design, inteso come linea guida, come filo di Arianna, praticamente non c’è. Il gioco scoraggia l’esplorazione e premia in termini di godimento chi si abbandona allo scorrere degli eventi, premia chi tira dritto senza toccacciare tutto o aprire porte a caso. In questa prospettiva, un’eccessiva abitudine alle prassi videoludiche diventa quasi un handicap, piuttosto che un vantaggio, il che è anche piuttosto indiziario riguardo al target di riferimento.

Ma il level design non è l’unica sottrazione operata dai Variable State. Virginia è economico sotto tutti i fronti. È economico in termini di estetica, ma soprattutto di interazione. Taglia tutte le azioni inutili: non occorre centrare la maniglia per aprire una porta, se non è strettamente necessario, o percorrere per intero un corridoio; dilatazioni e minuzie, quando presenti, servono solo il ritmo e la storia. Ciò nonostante Virginia è un gioco esigente, addirittura intransigente, e si prende i suoi tempi come e quando vuole. Il racconto scorre dinamico, le sequenze si innescano attraverso dei trigger o partono per conto loro senza aspettare il giocatore, il quale è costretto a tenere alta l’attenzione come se stesse guardando un film da sala che non può essere riavvolto. E in fondo va bene così, perché l’attenzione e la gestione del ritmo sono tutto ciò che il gioco chiede in termini di gameplay, e il pacchetto nel complesso funziona: schiva noia e tempi morti grazie a stacchi frequenti ma molto centrati in termini di intersezioni e geometrie. Il montaggio gestisce bene i salti temporali e spaziali, evita le ridondanze e fa sì che il gioco vada sciogliendosi quasi da sé in un paio di orette.

Qui non ci sono sfide in senso stretto, il giocatore non si evolve sul piano delle abilità o della destrezza, ma si limita a comprendere più o meno profondamente le pieghe della trama, quindi la ripetizione è inutile, persino dannosa. Molto meglio insistere su rimandi e variazioni (i risvegli, i caffè, i giri in macchina), e bon.

L’esperienza Virginia, dicevo, coincide completamente con quello che racconta. Racconta la televisione e il cinema degli anni Novanta, per prima cosa, citando abbondantemente la filmografia di David Lynch: Twin Peaks, naturalmente, dal momento che c’è in ballo un’indagine federale ambientata in una cittadina americana nel 1992 (l’immaginaria Kingdom, alla Lars Von Trier), per non parlare delle musiche à la Badalamenti; ma si citano anche Una stora vera (il cielo stellato è quello lì), Strade perdute e Mulholland Drive, soprattutto per il gioco di specchi tra le protagoniste, costantemente suggerito dalle geometrie e dalla costruzione delle inquadrature. Nel complesso la storia regge, è cervellotica il giusto e funziona il giusto, al netto di qualche cliché di troppo. Eppure di Virginia ho apprezzato più le intenzioni che gli esiti. Quella dei Variable State è un’idea di narrazione interattiva seminale, intransigente e coraggiosa, che senz’altro farà scuola per il modo in cui radicalizza certe meccaniche.

Tutte queste peculiarità complicano anche un po’ la pesa dell’opera, sia in termini qualitativi che identificativi: siamo di fronte a un videogioco? Senz’altro Virginia è un’esperienza interattiva piena, e senza l’interazione (gestione del ritmo/interpretazione) l’orologio non girerebbe. Gli autori, da parte loro, si divertono a confondere le idee, e dopo aver pattinato sul confine dei linguaggi audiovisivi, nei titoli di coda piazzano un bel “Thank you for playing”: dichiarazione artistica o trollata? Chissà.

Comunque, per farla secca: con Virginia complessivamente mi son trovato bene, le meccaniche sono fighe e coraggiose. La storia poteva pure essere scritta meglio, ma nel dubbio premio il coraggio e consiglio; anche perché, alla peggio, l’esperienza costa e dura davvero poco. Frechete!

Ho giocato a Virginia su PS4, tirando sempre dritto e completandolo in un paio d’ore circa. Tutto sommato mi è parsa una buona idea. A gioco terminato è partita qualche sega mentale e ci ho anche scritto roba sopra: varrà come gameplay?