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Ludophilìa #16 – Iconografia del De Gruttola

Ludophìlia (con l’accento così) non è una malattia venerea, ma una rubrica di approfondimento che corrobora mente e joypad, curata da uno che l’avrebbe addirittura voluta intitolare “I Love Tara Long”.

Il mito di David De Gruttola dispone di una carta preziosa: la sua testa. È una bella testa, perfettamente tonda, che presenta chiaramente tutti i segni dell’apostolato: lo sguardo buono, il “taglio” francescano, la barba missionaria, tutto ciò completato dalla camicia del prete operaio e dalla canna del pellegrino, propria dello sviluppatore che non crea drammi ludo-cinematografici per far soldi.

La testa.

In tal modo si uniscono le cifre della leggenda e quelle della modernità. Il taglio dei capelli, per esempio, semi-rasato, senza ricercatezza e soprattutto senza forma, mira certamente a realizzare una capigliatura interamente astratta dall’arte e anche dalla tecnica, una specie di stadio zero del taglio; bisogna pure farsi tagliare i capelli, ma che almeno quest’operazione necessaria non implichi alcun modo particolare di esistenza: che sia, senza per questo essere qualcosa. In David De Gruttola si ritrova così l’archetipo capillare della santità: il santo è prima di tutto un essere senza contesto formale; l’idea di moda è antipatica all’idea di santità.

La barba.

Identico circuito mitologico per la sua barba: non dubito che possa essere semplicemente l’attributo di un uomo libero, staccato dalle convenzioni quotidiane di questo mondo, a cui ripugna perdere il tempo per radersi: il fascino della carità può avere ragionevolmente simili forme di spregio; ma bisogna pur constatare che la barba ecclesiastica ha anch’essa la sua piccola mitologia. Non si porta affatto la barba a caso, tra i game designer; la barba infatti è soprattutto attributo missionario o cappuccino (leggasi indie) e non può fare a meno di significare apostolato e povertà. Essa astrae leggermente chi la porta dal clero secolare: i preti rasati si pensano più temporali, quelli barbuti più evangelici: l’enigmatico Jonhatan Blow è rasato, il mansueto Markus Persson barbuto.

La situazione tricotica.

Evidentemente il problema non è di sapere come questa foresta di segni abbia potuto ricoprire De Gruttola. Mi faccio solo qualche domanda sull’enorme consumo di questi segni da parte del pubblico. Lo vedo rassicurato dall’identità spettacolare di una morfologia e di una vocazione; senza dubbi, sull’una perché conosce l’altra; senza alcun altro accesso all’esperienza stessa del videoludico, se non il suo armamentario, è sempre più abituato a sentirsi in buona coscienza solo davanti al magazzino della santità; e mi preoccupo per una società che consuma così avidamente l’ostentazione della carità, da dimenticare di interrogarsi sulle sue conseguenze, le sue funzioni, i suoi limiti.

Finisco allora per domandarmi se la bella e commovente iconografia di De Gruttola non sia l’alibi che ancora una volta buona parte della società videoludica si concede per sostituire impunemente i segni della carità alla realtà del gameplay.