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Ridge Racer ci ha insegnato a derapare

Ridge Racer ci ha insegnato a derapare

I giapponesi l’avevano capito già da anni quanto il drifting fosse una pretesa di libertà, un atto di ribellione, estrema pratica di lifestyle, in un paese dalle regole sociali ferree, dove chi si mette di traverso e fa casino non è certo visto di buon occhio. Il paese delle custom car, che in città sono segno distintivo, sfoggio della propria personalità, come tatuaggi, gioielli, moda, ma sulle tortuose strade di montagna, le Tōge, trasformano l’estetica in espressione, con gare fuori legge e in controsterzo, talmente affascinanti e, prosaicamente “fighe”, da ispirare tonnellate di manga, anime, film e videogiochi. Videogiochi come il Ridge Racer di Namco che nel ’93 rese la derapata una delle mosse più cool del medium, tipo l’Hadoken di Ryu o lo strafing in Doom.

Ma che belle sono quelle nuvole?

Il contesto è quello di una gara legale in una città ideale, una specie di Montecarlo giapponese destinata a diventare uno fra i tracciati più iconici del genere. Grattacieli a due passi dal mare, palme, nuvole “miyazakiane” all’orizzonte, la downtown che si erge tra altissime scogliere e gli immancabili tornanti quando la strada comincia a salire verso le montagne, con strade che paiono canyon e gallerie che sembrano teletrasporti, perfetti stacchi tra i vari quartieri della metropoli. Seaside Route 765. The place to be. Non un semplice circuito, un’ambientazione.

Quel cielo azzurro che vive ancora sull’onda lunga dell’infinita estate anni ’80, prima che atmosfere più cupe, distopiche e futuristiche caratterizzino l’era PlayStation e la seconda metà dei ’90; mentre la techno hardcore, talmente violenta da sembrare quasi fuori contesto, aumenta il rilascio di adrenalina nell’organismo integrandosi perfettamente al sound elettronico, da rave, che cominciava a prendere il sopravvento sulla scena musicale. Un’adrenalina necessaria quando si parte sempre dall’ultimo posto, esaltando l’atto della rimonta che, nel motorsport, è l’avvenimento più esaltante, laddove dominare una gara evidenzia la “lentezza” degli avversari, mentre guadagnare secondi, giro dopo giro, sorpasso dopo sorpasso, incarna l’epica stessa della velocità. La visuale in soggettiva, dal paraurti, a filo d’asfalto, è ancora oggi clamorosamente immersiva, nonostante i trent’anni sulle spalle e i 32-bit del motore. Infilare un avversario in curva, di traverso, alla cieca, per poi rimettersi dritti lavorando con delicatezza sullo sterzo, gestendo una manovra anti-fisica, possibile solo nell’immaginario arcade. E come scivola, l’auto: è quasi telepatica la connessione tra il giocatore e il bolide, se il cervello dice “di traverso”, quei pochi poligoni a forma di automobile ci si mettono, con naturalezza. È un tipo di gameplay refrattario all’invecchiamento, essenziale.

Reiko Nagase divenne il personaggio iconico della serie, una vera e propria virtual model all’epoca, utilizzata da Namco come testimolial per la serie (qui nella cover del quarto capitolo) e non solo.

Chissà che roba doveva essere il cabinato originale, con una vera Mazda MX-5 ad attirare tutti gli sguardi della sala giochi, widescreen montato davanti al parabrezza e un godimento totale vissuto un gettone alla volta. Una di quelle robe che, se fossi milionario, avrei assolutamente in casa. La dimostrazione che, in quegli anni, se volevi mostrare i muscoli e i traguardi tecnici della tua software house, il racing era uno dei terreni ideali per far parlare di sé, per complessità dei cabinati e sfarzo grafico; e Namco aveva deciso di lanciare una vera e propria scalata al trono di SEGA, inserendosi in una sfida totale, multi-genere, con Ridge Racer contro Daytona U.S.A., Tekken contro Virtua Fighter, Time Crisis contro Virtua Cop. Ma è poi la partnership con Sony che fece esplodere la serie su PlayStation e rese quel tipo di gameplay molto più pop, con 4 capitoli in 4 anni a formare una sacra trinità con Gran Turismo e Wipeout che portò gli appassionati di racing in paradiso. Nel nome del drifting, della simulazione e dell’antigravità, amen. A livello personale, il primo Ridge Racer fu addirittura quello che accompagnò il lancio di PSP nel 2004, ma fu un’esperienza life changing, soprattutto nel mio rapporto (sempre intimo) coi giochi automobilistici, convertendomi al culto del traverso e portandomi a guardare storto tutti quei titoli dove la derapata era insipida o peggio, dio me ne scampi, penalizzata!

Che zarrata, che bellezza!

La cosa veramente bella è che ultimamente, dopo un periodo di ultra-realismo, c’è stata una vera e propria riscoperta di questo meraviglioso gesto tecnico, con un sacco di racing che l’hanno reso incandescente nucleo di gameplay. Forza Horizon, gli ultimi Need For Speed, Mario Kart (soprattutto l’8) ma anche produzioni più piccine come Hotshot Racing, Absolute Drift e Inertial Drift. Certo Ridge Racer è in freezer e Bandai Namco non sembra essere dell’idea di scongelarlo, il mercato è cambiato e gli ultimi capitoli principali usciti non sono certo stati dei successi, né di critica, né di pubblico. Forse il suo tempo è finito, ci sta, succede, ma la sua eredità è viva, evoluta, al passo coi tempi, riadattata, ma sicuramente viva, tra stridori di gomme e motori fuori giri.

Questo articolo fa parte della Cover Story “Motori in pista”, che potete trovare riassunta qua.

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