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Post Mortem #43: Ricordando Mystery House

Post Mortem #43: Ricordando Mystery House

Post Mortem è una rubrica in cui vi raccontiamo le considerazioni a posteriori sull’esperienza legata alla lavorazione di questo o quel videogioco.

I coniugi Williams hanno abbandonato da tempo il mondo dei videogiochi e Roberta Williams, in particolare, ha dichiarato pubblicamente di essersi lasciata quell'ambito alle spalle. Figurarsi, quindi, se ci si può aspettare di vederla sul palco della Game Developers Conference, pronta a raccontare dei bei tempi in cui Sierra On-Line innovava, conquistava e, almeno per qualche anno, diventava il publisher più grosso sulla piazza. Oddio, magari potrebbe succedere, ma insomma. Anche per questo, alla GDC 2018, Laine Nooney, insegnante alla New York University e storica del videogioco, ha messo assieme un talk in cui raccontare lo sviluppo di Mystery House sulla base di materiali, interviste e un po’ tutto quello che è venuto fuori dal suo lavoro di ricerca. Non proprio un post mortem come viene comunemente inteso, insomma, ma comunque un qualcosa di interessante, che sarebbe bello vedere proposto in abbondanza.

Mystery House, visto con l’occhio contemporaneo, è un gioco incredibilmente semplice, rozzo, invecchiato. Ma nel 1980, beh, la faccenda era lievemente diversa e si trattava di un’opera a dir poco seminale. Stiamo parlando di quella che viene identificata come la prima avventura grafica della storia, uno fra i primi giochi a riscuotere enorme successo su Apple II, il titolo capace di lanciare un publisher fondamentale come Sierra On-Line. E venne sviluppato da due persone che, fino a quel punto, non erano minimamente interessate a creare videogiochi. Lei era una casalinga che non amava i computer, lui era un programmatore che non voleva sviluppare videogame. Eppure, i due si misero al lavoro insieme, nella propria casa – molti pensano che fu solo Roberta a sviluppare il gioco, ma partecipò anche Ken – e crearono un’opera fondamentale.

Mystery House era composto da settanta stanze, tutte stipate su un singolo dischetto.

Nel 1979, Jimmy Carter era al termine del suo mandato come presidente degli Stati Uniti d’America, il canale televisivo ESPN veniva lanciato, vedevamo immagini della luna di Giove e gli USA erano alle prese da praticamente un decennio con inflazione, recessione e crisi energetica. In questo contesto, molti nemmeno si rendevano conto dell’invasione di personal computer, però i primi set comprensivi di tasteria e monitor (TRS-80, Commodore PET, Apple II… ) si stavano facendo strada nelle case. Nell’autunno di quell’anno, i Williams non avevano un PC, Ken lavora con un teletype che si era portato nella sua casa di periferia a Los Angeles. Stiamo parlando di un macchinario enorme, rumoroso, scomodo, che però permetteva per la prima volta di collegarsi a un network dalla propria casa. Ken aveva intenzione di connettersi a un mainframe per capire se poteva avere un senso commerciale mettersi a sviluppare un compilatore Fortran.

Fu così che incappò in Colossal Cave Adventure. Certo, avendo a disposizione solo un teletype, era la versione su carta stampata del gioco ma, ehi, stiamo comunque parlando del papà di tutti i giochi d’avventura! Non particolarmente interessato, Ken disse a sua moglie di dargli un’occhiata e, beh, fu colpo di fulmine. Roberta Williams dichiarò in seguito che aveva aspettato tutta la vita per una cosa del genere. I due, comunque, erano ancora relativamente giovani: venticinque anni lui, venticinque anni lei. Vivevano, come detto, nella periferia di Los Angeles, si erano sposati giovani, avevano vissuto da bambini e adolescenti eventi come l’assassinio di JFK, l’atterraggio sulla Luna, il Vietnam, anche se Ken aveva fatto appena in tempo ad evitare il servizio militare di leva. Avevano due figli e sognavano di andare a vivere lontano dalla città, fra i boschi. Roberta faceva la madre e la casalinga, mentre Ken lavorava come freelancer nella speranza di accumulare soldi a sufficienza per traslocare.

Roberta non approcciò Colossal Cave Adventure da totale ignorante in materia: aveva lavorato usando il COBOL e Ken le aveva fatto provare altri videogiochi. Allo stesso tempo, però, era intimidita dall’ossessione del marito per i computer. Ma Colossal Cave Adventure era diverso. Era semplice da usare perché, al contrario degli altri videogiochi, non prevedeva che avessi dimestichezza con il computer. Seguiva, in un certo senso, la filosofia portata avanti da Nolan Bushnell fin dai tempi di Computer Space: «Così semplice che qualsiasi ubriaco in qualsiasi bar potrebbe giocarci». Roberta lo divorò e si appassionò al genere. Comprò un computer, si immerse nei giochi di Scott Adams, nelle avventure Infocom, e si rese conto che non ne venivano pubblicati abbastanza per soddisfare la sua fame. Decise allora di provare a crearne uno lei.

L’ispirazione venne da Cluedo e dai romanzi di Agatha Christie e l’idea era di avere una casa da esplorare mentre attorno a te le vittime si accumulavano. Mystery House, infatti, è un gioco in cui cerchi di capire chi sia l’assassino, sei naturalmente spinto a farlo. Però – spoiler – non arriverà mai un momento in cui dovrai accusare qualcuno: l’assassino è in realtà una sconosciuta che si nasconde in soffitta. Il gioco d’esordio di Roberta Williams, insomma, non è un classico “whodunit”, come lo saranno, un decennio e oltre dopo, i suoi The Colonel’s Bequest e The Dagger of Amon Ra.

Un Apple II, un dischetto, una storia ispirata ai gialli e, per la prima volta in un’avventura, della grafica. Questi i concetti alla base di Mystery House.

Nella “convinzione popolare” che Mystery House sia un gioco sviluppato dalla sola Roberta, comunque, c’è forse un fondo di verità dato dal fatto che la forza creativa alla base di tutto è sua. Da lei arriva l’enorme cura per i dettagli. Da lei arrivano trovate folli come quella storyline secondaria basata sulla ricerca di un tesoro. Da lei arriva la decisione di innovare nel genere delle avventure testuali introducendo la grafica, dando vita a un’ossessione per l’avanzamento tecnologico che caratterizzerà tutta la sua carriera. Fu lei a spingere e motivare Ken, a convincerlo a tentare di fare cose che lui riteneva impossibili e, in generale, durante una fatale cena in una steakhouse, a fargli capire che il suo talento da imprenditore era perfetto per i videogiochi. Altro che il FORTRAN.

E ancora, fu lei a strutturare l’intero gioco, pianificandolo prima che venisse scritta una singola linea di codice, organizzando il tutto sulla base delle varie stanze, che studiava collegando fra loro immagini dei locali e ragionando a partire dalla storia che voleva raccontare. Quello dei coniugi Williams, di fatto, fu il primo caso documentato, o comunque uno dei primi, in cui il (la) game designer e il programmatore erano due persone diverse. All’epoca, infatti, lo sviluppo di un videogioco tendeva ad essere gestito da una sola persona e, anche se collaboravano in due o tre, i ruoli erano molto sfumati. Ma d’altra parte, qualche zona di grigio c’era anche fra i Williams: Ken ideò un sistema per introdurre sua moglie alla logica della programmazione, strutturato su tre colonne che separavano verbi, oggetti e cose che accadono nel gioco. In questo modo, Roberta fu spinta a ragionare in termini di verbi e condizioni e fu per lei più semplice calarsi nell’ordine di idee necessario a riprodurre le dinamiche dei giochi di cui si era innamorata.

Roberta Williams si era immaginata un gioco da oltre cento stanze, il marito dovette convincerla ad accontentarsi delle settanta abbondanti che si trovano in Mystery House.

Fu insomma un lavoro di collaborazione totale, coi due che si tendevano costantemente la mano per comprendere le necessità dei rispettivi ruoli, creando – di nuovo – una dinamica di sviluppo che all’epoca era rara, se non proprio inedita. Ken decise di non utilizzare immagini per la grafica del gioco, ma coordinate di vettori scritte in 6502 Assembly. Ogni punto “pesava” quattro byte e le linee che li univano erano, dal punto di vista del computer, operazioni, non immagini. Roberta disegnava le stanze fisicamente, su carta, utilizzando uno strumento da architetti e le dava poi in pasto a Ken, che le riproduceva secondo quelle dinamiche.

Lo sviluppo venne quindi portato avanti attraverso il conflitto fra Roberta, che chiedeva tutto ciò che le serviva per poter ottenere il livello di coinvolgimento da lei ricercato, e Ken, che cercava di mediare le richieste e dare loro corpo attraverso la programmazione. Ne venne fuori un gioco estremamente innovativo, che fece fare un balzo in avanti nella consapevolezza su ciò che si poteva fare con un personal computer. Anzi, non con uno qualunque: con un Apple II. Mentre Zork sfondò anche perché potevi giocarci praticamente dappertutto, Mystery House sfondò perché mostrò cosa si poteva fare con un Apple II. Ti offriva qualcosa di unico, una grafica molto bella e dettagliata (no, sul serio: per gli standard dell’epoca, era molto bella e dettagliata), e questo era un “selling point” notevole non solo per il gioco, anche per il computer in questione.

Bastava piazzare un paio di immagini del gioco sulle riviste specializzate perché il pubblico di riferimento capisse al volo la portata innovativa di Mystery House.

Inizialmente, Mystery House venne messo in vendita, come tanti altri progetti dell’epoca, in una bustina di plastica con un “manuale” da una pagina. L’accordo di distribuzione che erano riusciti a rimediare, però, non soddisfaceva i Williams, che decisero di mettersi completamente in proprio. Nacque così On-Line Systems, nome scelto da un Ken che ancora sperava di potersi dedicare a sfotware più “serio”. Dopo due anni, sarebbe cambiato in Sierra On-Line. La sede dell’azienda, almeno inizialmente, fu ovviamente casa Williams: 772, Hollbrook Avenue, Simi Valley, California. All’epoca era normale avviare uno studio di sviluppo da casa, per poi eventualmente far evolvere la situazione se le cose andavano bene dal punto di vista economico. I Williams si ritrovarono quindi a vendere il gioco per corrispondenza e rispondere alle richieste di aiuto dei giocatori da casa propria. Ma gli affari andavano bene, erano anzi in crescita costante: oltre diecimila dollari il primo mese, ventimila il secondo, trentamila il terzo. Casa Williams aveva iniziato a stampare dollari. E, del resto, la casa era, se vogliamo, un po’ la terza protagonista di questa storia.

Mystery House venne sviluppato a casa. Roberta Williams era entrata in contatto con i computer a casa, non in ufficio o a scuola come in quegli anni capitava a quasi tutti. Portò avanti il design del gioco a casa. Anzi, in cucina, pare, forse perché così poteva lavorare mentre teneva d’occhio i figli. E ancora: Mystery House è il primo videogioco ambientato in spazi domestici, che richiede di girare per una casa e utilizzare oggetti quotidiani. Del resto, a svilupparlo fu forse il primo game designer che non lavorava all’MIT, a Stanford, in luoghi incentrati sull’innovazione computerizzata. Non giocava a GdR e boardgame, non fantasticava sui viaggi nello spazio. La potenza immaginifica del gioco non stava negli omicidi ma nel modo in cui utilizzava gli spazi quotidiani, frammentando regole della logica e della fisica, trasformando oggetti qualunque in strumenti per la scoperta.

E questi sono temi che, in una certa misura, avrebbero poi percorso tutti e diciotto gli anni della carriera di Roberta Williams, una donna con una vita da donna. King’s Quest, del resto, aveva sempre una famiglia al centro delle vicende, anche nelle sue situazioni più assurde e sopra le righe. Poi, certo, Roberta aveva anche una passione per l’horror, da Mystery House a Phantasmagoria (il suo ultimo gioco), passando per The Colonel’s Bequest, ma anche in quei casi si trattava, vedi un po’, sempre di orrore domestico, dell’inquadrare la casa come luogo di morte.

Lo sviluppo di videogiochi, sostiene Laine Nooney per concludere il suo intervento, non avviene mai in una situazione isolata dal contesto sociale e culturale del tempo. Vale per Roberta Williams come per qualsiasi veterano di quegli anni. I videogiochi hanno tutti una valenza culturale o politica e non devono essere autobiografici per essere opere personali. Sono personali perché vengono sviluppati da persone.

Roberta Williams aveva un rapporto complesso con lo spazio domestico, uno spazio che, fra l’altro, oggi quasi non esiste più, data la scomparsa pressoché totale della separazione fra casa e lavoro. Il suo lavoro gravita attorno allo spazio domestico e ne esplora i confini, gli orrori, i piaceri. Oggi, come dicevamo all’inizio, Roberta si è completamente isolata dagli onori della cronaca videoludica e non rilascia interviste da un decennio. Non parla più dei suoi giochi e ribadisce sempre che “I don’t do Sierra anymore.” Se la ricordiamo ancora, non è necessariamente per i suoi enigmi bizzarri o per la sua narrazione rozza e derivativa, ma per la poesia un po’ storta e particolare delle sue opere, così lontana da ciò che siamo abituati a considerare videogiochi.

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