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Mortal Kombat: trent’anni di ossa rotte, crani spappolati e fiumi di sangue | Racconti dall'ospizio

Mortal Kombat: trent’anni di ossa rotte, crani spappolati e fiumi di sangue | Racconti dall'ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Nel 1991 Street Fighter II era dappertutto. Il picchiaduro Capcom, forte della sua popolarità, si era diffuso a macchia d’olio, come una sorta di “virus buono” se vogliamo, e si poteva trovare il cabinato in qualunque bar o sala giochi esistente, con una cospicua serie di persone che attendeva il proprio turno accalcandosi presso il malcapitato che stava giocando in quel momento per distrarlo e infastidirlo con commenti provocatori e inopportuni; per farlo perdere il più in fretta possibile in modo che toccasse poi a loro misurare le proprie abilità nelle arti marziali digitali.

D’altronde, Street Fighter II aveva praticamente tutto per far breccia nel cuore degli appassionati: era impegnativo ma mai troppo frustrante, aveva un parco lottatori eterogeneo che spaziava dalla sexy e letale Chun-Li fino all’abominevole e rabbioso Blanka, e quella grafica coloratissima che ingenuamente chiamavamo “cartoonesca”. Tutto ciò invogliava la maggior parte di noi a spenderci diversi gettoni (nonché diverse ore del nostro tempo, che all’epoca, essendo poco più che bambini, non era particolarmente prezioso come invece lo è adesso).

Poi, l’anno successivo, qualcosa cambiò. Arrivò Mortal Kombat, e il mondo dei picchiaduro non sarebbe stato più lo stesso. Quando il cabinato del gioco Midway arrivò dalle mie parti, il momento d’oro di Street Fighter II non dico fosse finito, ma era quantomeno passato nella fase calante. Mortal Kombat non era migliore, era, semplicemente, diverso. E fu proprio questo a catalizzare l’attenzione generale. Niente grafica “cartoonesca”, niente rispettabili lottatori con il kimono, niente musichette orecchiabili: Mortal Kombat ti trascinava in un universo oscuro e violento, con letali ninja variopinti, guerrieri pittoreschi usciti dai film di arti marziali degli anni novanta e, soprattutto, quello che sarebbe diventato il marchio di fabbrica della serie: tanta, tanta violenza. Durante i match, in caso di colpi particolarmente violenti come gli uppercut, il sangue scorreva a fiumi, e, una volta sconfitto l’avversario, lo si poteva giustiziare in maniera cruenta e brutale con una mossa finale denominata “Fatality”.

Ed era proprio quello l’elemento maggiormente attrattivo del gioco: il vincitore poteva decapitare il perdente, bruciarlo, o, più simpaticamente, strappargli il cuore (o meglio ancora la spina dorsale). Si trattava di un tipo di violenza assolutamente gratuito ma senza alcuna cattiveria di fondo: erano semplicemente situazioni che al massimo potevano strappare una risata a chi guardava, data la loro natura volutamente farsesca ed esagerata. Al di là di quest’elemento – che mascherava anche qualche povertà, come il basso numero di lottatori e lo scarso tecnicismo dei combattimenti – la missione di Mortal Kombat era sostanzialmente riuscita: raggiungere la popolarità di Street Fighter II, al punto da creare, nel corso degli anni, oltre ad una vera e propria rivalità fra le due saghe, due differenti scuole di pensiero: c’è chi sosteneva che il titolo Capcom fosse il picchiaduro perfetto perché era un titolo “di sostanza”, capace di raccogliere attorno a sé i giocatori per le sue qualità intrinseche e non per aspetti di contorno come invece faceva Mortal Kombat. Al contrario, c’era chi sosteneva che il picchiaduro creato da Ed Boon e John Tobias fosse molto più divertente e appagante da giocare proprio perché privo di quella serietà che invece aveva Street Fighter II.

Personalmente, pur ritenendo il titolo Capcom un gioco migliore sotto molti aspetti, ho sempre preferito Mortal Kombat proprio per la sua “cornice” dark e violenta, senza contare che fra i miei compagni di scuola dell’epoca il titolo era diventato così popolare che durante gli intervalli o ritrovandoci a casa di quei fortunati che avevano la loro bella versione console o PC, non parlavamo d’altro: riuscire ad eseguire le fatality, se esistesse la possibilità di poter sbloccare Goro e Shang Tsung e via dicendo. Circolavano fra gli appassionati quelle “leggende metropolitane” che poi si rivelarono più o meno vere, come la presenza del “ninja verde e ninja arancione segreti” che altri non erano che Reptile (effettivamente presente nel primo titolo) ed Ermac, che sarebbe poi diventato un vero e proprio lottatore nei capitoli successivi. E fu così che Mortal Kombat è diventato uno dei giochi della mia infanzia a cui sono maggiormente affezionato, anche se per giocarci dovevo andare a casa di questo o di quell’amico, a volte accontentandomi di giocare alla versione “menomata” per SNES, priva di sangue, o addirittura alla versione Amiga (che ricordo particolarmente lenta) finendo poi per dovermi accontentare, nel mio piccolo universo personale, della versione a cristalli liquidi di GIG. Inutile dire che, durante le varie partite, ci si ingegnava con fogliettini vari scritti a penna con tutte le fatality e mosse speciali dei lottatori, anche se la rapidità di esecuzione richiesta era talmente elevata che raramente si riusciva ad eseguirle.

La strada era ormai tracciata: così come in molti cercarono di emulare Street Fighter II, altrettanti fecero con Mortal Kombat, molto spesso con risultati scadenti come Ultra Vortek, Way of the Warrior (sviluppato da una giovane Naughty Dog), Kasumi Ninja, Shadow e prodotti mai pubblicati ufficialmente come Tattoo Assassins. Inutile dire che nessun contendente riuscì ad usurpare il trono di Mortal Kombat, che aveva consolidato la sua leadership con un secondo episodio che migliorava e affinava praticamente tutto ciò che si poteva, portandosi dietro il consueto carico di polemiche sterili (soprattutto in USA e in alcuni paesi europei come la Germania) sulla sua natura violenta, cosa che comunque non fece altro che aumentare la popolarità del gioco agli occhi del pubblico.

Con l’avvento dei primi picchiaduro tridimensionali, il mio amore per Mortal Kombat si era piuttosto ridimensionato, e dopo diversi anni di lontananza da Liu Kang e soci (complice anche la qualità altalenante dei successivi titoli e la virata verso alcuni spin-off poco riusciti) mi sono riavvicinato alla saga con il bizzarro Mortal Kombat vs DC Universe e poi con il soft reboot del 2011 (vi invito, se ne avete voglia, a recuperare l’ospizio dedicato), e devo dire che oggi più che mai con Mortal Kombat 11 la serie gode di ottima salute, avendo coniugato una violenza sempre più parodistica e divertente con una funzionale semplicità generale che permette a tutti di godere di tutto ciò che il titolo può offrire.

Cosa rimane del primo Mortal Kombat, oggi, a trent’anni dalla sua uscita? Beh, rigiocandolo, il titolo è veramente invecchiato male: legnoso, collisioni pessime e personaggi non propriamente bilanciati fra loro. Un gioco grezzo migliorato poi nettamente nelle successive interazioni, capace però di tracciare un segno indelebile nel cuore degli appassionati, che resiste ancora oggi. Mortal Kombat è l’arpione di Scorpion, la sfera congelante di Sub Zero, i fulmini di Raiden, il pugno nelle parti bassi di Johnny Cage, il logo del drago e quel motivo musicale martellante.

Sì, Mortal Kombat era diverso. Niente ci ha preparato al suo arrivo e niente sarebbe stato più come prima.

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