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Max Payne 3 e il mio concetto di videogioco | Racconti dall'ospizio

Max Payne 3 e il mio concetto di videogioco | Racconti dall'ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

E così, finii per diventare quello che volevano loro, un assassino. Un pagliaccio con la pistola, pagato per bucherellare qualcuno. Beh, era quello per cui avevano pagato e quello avevano ottenuto. Dite quel che volete di noi americani, ma il capitalismo lo capiamo bene. Quando compri un prodotto, ottieni ciò per cui hai pagato. Questi idioti avevano pagato un gringo incazzato e incapace di distinguere tra giusto e sbagliato. Ero lì, sul punto di ammazzare quel povero bastardo come un angelo della morte da quattro soldi. Capii che avevano ragione. Non avrei distinto giusto e sbagliato neanche se avessi visto uno di loro aiutare i poveri e l’altro fottersi mia sorella.

C’è un dibattito che è probabilmente vecchio come il mondo e che pretende di definire una volta per tutte se un nuovo linguaggio/arte/medium possa definirsi tale solo nel momento in cui rifiuta ogni contaminazione o prestito da chi lo ha preceduto.

Questo dibattito a dirla tutta risultava già stantio ai tempi del riconoscimento del cinema come settima arte, con gli avanguardisti che rifiutavano ferocemente il cinema “teatrale” o “romanzato” e si beavano di esperimenti astratti senza altro significato oltre al puro mostrato o, al polo opposto, propagandavano l’idea di un “occhio oggettivo” che mostrasse la realtà e null’altro annullando completamente la mano (e l’occhio) dell’uomo, ma che in ultima analisi consegnavano al cinema regole e forme espressive che il cinema “narrativo” userà ed abuserà per crescere. Con tanti sentiti ringraziamenti. Il fumetto ad esempio questa ordalia la scampò, forse perché nonostante un secolo abbondante di esistenza ancora non viene preso sul serio, con il risultato che oggi si trova più di un editore/autore/critico che deve per forza attirarsi qualche pernacchia pensando di fargli un favore “nobilitando” certi volumi termine “graphic novel”.

L’ultima arte/linguaggio/fate voi, quella videoludica, non è stata così fortunata e per qualche tempo ci siamo dovuti sopportare alcuni soloni che dovevano per forza farci sapere che il videogioco non poteva definirsi tale se “scimmiottava il cinema”.

Fortunatamente, almeno per me, i pazzoidi finlandesi di Remedy questo comandamento non lo hanno mai saputo e, quindi, sono arrivati fino all’eccesso sborone di concepire un gioco, Alan Wake, come una serie televisiva e di INSERIRE una serie televisiva (peraltro recitata bene e con un colossale Lance Reddick nel cast) in Quantum Break.

No.

E dieci anni or sono, arrivarono a fare di Max Payne 3 l’equivalente non di una serie, non di un film, ma di un intero cofanetto di film d’azione “Direct to Video”.

Dello stile di Max Payne, della sua solida ricorsività narrativa basata su situazioni che si sviluppano su un binario predefinito, dall’incipit che ci mostra il finale, all’inferno di fiamme, fino al palazzo che crolla in testa al nostro scazzato eroe; della sua autoironia figlia della “silver age” degli eroi action; della cura “hollywoodiana” nel gestire un “cast” stereotipo eppure carismatico, ne ho già parlato. Del terzo e ultimo capitolo delle sue avventure voglio invece ricordare la totale bulimia nel divorare ambientazioni e situazioni “tipiche” del genere (cinematografico) di riferimento.

Laddove il primo e il secondo capitolo erano l’equivalente di un revenge movie urbano fatto su misura per Bruce Willis (ciao zio, ci mancherai), come detto il terzo capitolo rappresenta un intero cofanetto antologico.

Nei migliori cinema.

Inizialmente siamo nell’action urbano delle “trappole di cristallo” a metà tra Die Hard e Miami Vice, con Max disilluso e destrutturato che vaga tra arredamenti costosissimi e pacchiani passando metà del tempo a cercare di evitare proiettili che gli vengono scaricati addosso attraverso ampie vetrate a giorno, e l’altra metà a cercare di non vomitare whisky e antidolorifici (la colazione del campione) nei preziosi vasi da collezione dei suoi datori di lavoro.

Quindi un provvidenziale flashback ci riporta nei ben conosciuti e mai dimenticati meandri dei peggiori isolati di Hoboken, a respirare l’inconfondibile profumo di pessimi diner, carburatori mai puliti, mura impregnate di muffa, vernice spray e - non occasionalmente - vomito (spero non stiate leggendo a pranzo). Poi si va in escursione negli acquitrini di una tipica “kidnap-jungle” infestata di zanzare, topi e banditi accasati in moli e relitti fatiscenti la cui sola vista causa il tetano. Il ritorno alla civiltà lo si festeggia in una favela che poco può invidiare alle attrattive della Striscia di Gaza (forse mancano solo i bombardamenti arbitrari). Infine l’ambiente urbano moderno torna a farla da padrone con tre diversi classici in rapida successione: il “breakout” con eroe chiuso in un palazzo fortificato pieno di nemici, lo scontro urbano con tanto di fuga su autobus (The Gauntlet?) e l’assalto all’aeroporto (e qui, di nuovo, Zio Bruce è il grande nume tutelare).

Scegliete il vostro action flick.

Non so se furono le disponibilità tecnologiche, monetarie o la percezione che non ci sarebbero state altre avventure per un po’ (speriamo tutti: non per sempre), ma l’offerta è davvero disorientante e, forse, il maggior pregio di ciò è che è solo dalla seconda run che il giocatore si rende conto di quanto ciò sia ben poco credibile. Alla prima run l’incredulità non era “momentaneamente sospesa” ma stava con il pad in mano urlando “ingoiate piombo, bastardi!!”.

Dieci anni fa, quindi, non solo Rockstar Games e Remedy decisero di “scimmiottare” il cinema action ma, per non sbagliare, decisero di scimmiottarlo TUTTO, in una abbuffata pantagruelica a cui io, che vedo la narrazione come gioco ed il gioco come narrazione, partecipai facendo scarpetta e chiedendo “datemene ancora!”. Ché mi è rimasto un certo languorino.

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