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Lamù: Beautiful Dreamer e la svestizione di Rumiko Takahashi

Lamù: Beautiful Dreamer e la svestizione di Rumiko Takahashi

La prima volta che ho infilato nel videoregistratore la VHS di Lamù: Beautiful Dreamer correva il 1992, mi pare. Sul film ci ero capitato grazie alla solita recensione di Zzap!, e mi piacque talmente tanto che finii per consumare il nastro, anche perché, insomma, all’epoca il convento passava poca roba e dove si poteva ricicciare, si ricicciava. Poi, da un certo momento in avanti, non l’ho più rivisto, tipo per anni, e ho finito per convincermi che quel film fosse un retaggio dei Novanta, massimo fine Ottanta. Quando poco fa ho realizzato che risale addirittura al 1984, mi è quasi preso un colpo, anche perché, a parte qualche smagliatura nella grana e la leggerezza anacronistica con cui vengono rappresentati simboli e uniformi naziste, a livello formale non c’è nulla che denunci veramente quell’età lì.

Sicuramente non la denunciano le animazioni né tantomeno il character design, che assieme tirano su una fra le migliori rappresentazioni di sempre del mondo di Urusei Yatsura, mentre la regia è tanto generosa di movimenti e giochi di luce se c’è da star dietro alla gazzarra, quanto gentile di fronte ai sentimenti.

La sequenza aerea è in odore di virtuosismo.

Poi, naturalmente, c’è il racconto. Lamù: Beautiful Dreamer parte come la rielaborazione della fiaba di Urashima Tarō, il pescatore che, dopo aver salvato la vita a una tartaruga, viene invitato nel palazzo sottomarino di Ryūjin, dove un giorno è lungo come un secolo.

Niente di nuovo rispetto agli standard della Takahashi o di altri mangaka suoi coetanei, tipo Akira Toriyama o il compianto Hideo Azuma, abituati a mescolare il foclore locale con la cultura pop occidentale. Nel caso di Lamù, poi, la rimediazione è già nella cornice, visto che gli abitanti del pianeta Uru sono extraterrestri che hanno ereditato alcuni tratti dagli oni, gli orchi della tradizione giapponese.

Insomma, come ho detto, tutto nella norma, se non fosse che nei titoli di coda di Beautiful Dreamer il nome di Rumiko Takahashi salta fuori pochissime volte. La produzione del film era stata affidata allo studio Pierrot, lo stesso che curava anche la serie e che era diventato celebre soprattutto per le sue “majokko”, mentre le chiavi di regia e sceneggiatura vennero messe in mano a un animatore poco più che trentenne proveniente dalla Tatsunoko, amante della fantascienza e fissato col cinema europeo: Mamoru Oshii. Lo stesso Mamoru Oshii che di lì a dieci anni avrebbe sconvolto la scena cyberpunk adattando Ghost in the Shell.

E pure la parte nella scuola…

Il nostro, per la verità, non era nuovo alle robe di Lamù, visto che nel 1983 aveva diretto il lungometraggio Lamù: Only You, scritto assieme a Tomoko Konparu e ampiamente rivisto dalla Takahashi stessa.

Con Beautiful Dreamer, però, le cose andarono diversamente. Per Oshii, Only You era uscito troppo convenzionale (contestualmente parlando), e a ‘sto giro era deciso a non fare prigionieri. Scardinò le difese del manga e si infilò all’interno di quel mondo per provare a esporlo e, eventualmente, farlo saltare per aria. Per certi versi, finì metaforicamente per infilarsi anche nella testa della stessa Takahashi, che non prese bene la violazione, così come non la presero bene i fan.

Ma esattamente, cosa fece Oshii di così eversivo? Partendo dallo spunto della fiaba di Urashima, intrecciò attorno ai personaggi una gabbia spazio-temporale in stile Ricomincio da capo/Edge of Tomorrow, dopodiché sfruttò questa “zona” come punto di partenza per tutta una serie di movimenti filosofici, simbolici ed estetici che avrebbero fatto la felicità dei suoi adorati Fellini, Bergman, Godard, ma soprattutto di Tarkovsky.

Uh, questa me la ricordavo.

Oltre a celebrare l’adolescenza dei protagonisti, l’eterno presente della città-tartaruga assume inevitabilmente un significato metanarrativo che scopre la verticalità della serie animata e del manga, dove il tempo pure “non passa mai”. Contemporaneamente, soprattutto per bocca del demone Mujaki, viene portata avanti una riflessione sulla relatività di concetti come sogno e realtà e sulla nozione del tempo, anteponendo all’inafferrabilità di passato e futuro il valore assoluto del presente, in quanto unico momento capace di incrociare la percezione degli esseri umani.

Da lì, dibattendosi lungo un’agenda di eventi apparentemente immutabile e inevitabile, i personaggi finiscono piano piano per svelare il nodo gordiano del film, ovvero un’indagine sul libero arbitrio condotta attraverso il rapporto fra Ataru e Lamù.

Tornando per un secondo ai manga della Takahashi, l’autrice è nota per le sue storie e gag sviluppate a partire da una serie di vincoli e premesse, lungo un sistema di variazioni che ricorda le strisce di Charles M. Schulz, piuttosto che i lavori di certi suoi colleghi mangaka. Per fare un paio di esempi, in Ranma ½ le “regole” sono conseguenza delle varie maledizioni che affliggono i protagonisti, mentre in One Pound Gospel l’incapacità del giovale pugile di gestire il proprio appetito fa il paio col vincolo religioso di suor Angela. In Lamù, apparentemente, le cose sono addirittura più semplici, visto che la comicità nasce dalla frizione tra le tendenze fedifraghe di Ataru e la gelosia della ragazza.

L'inconscio di Lamù?

Messo di fronte a un nucleo comico così antico e universale, anziché darlo per scontato, Oshii decide di smontarlo per vedere che cosa c’è dentro, e quello che trova è un Ataru profondamente innamorato di Lamù, ma che allo stesso tempo sente il bisogno di fuggire dalla ragazza per essere libero di sceglierla a prescindere da legacci sociali o narrativi. Nel film, il giovane raggiunge questa consapevolezza attraverso un percorso di sogni elaborativi (anche se sarebbe meglio dire incubi), e anche Lamù finisce per percepirla a livello inconscio, attraverso la sé stessa bambina.

In definitiva, l’approccio di Oshii nei confronti di Lamù è quello di uno che ha digerito benissimo l’opera originale e ne ha concettualizzato i meccanismi, diventando una specie di medium tra l’autrice e il suo pubblico. Autrice che, di contro, è possibile che certi meccanisimi li abbia affidati all’istinto del processo creativo, vai a sapere, e che in ogni caso, di punto in bianco, se li ritrova sciolti davanti agli occhi. Premesso che stiamo filando a tutta manetta nel campo delle congetture, magari è rimasta sorpresa, o addirittura si è presa male: in fondo, a nessuno piace ritrovarsi di punto in bianco senza vestiti in mezzo alla gente.

Questo articolo fa parte della Cover Story “Febbraio bizarro”, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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