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Castle of Illusion prima di colazione | Racconti dall'ospizio

Castle of Illusion prima di colazione | Racconti dall'ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Quando avevo otto anni, amavo i videogiochi più di ogni altra cosa. Anche adesso, ma ai tempi era un amore puro, estremo, totalizzante. Un videogioco nuovo era la promessa di ore di divertimento e, paradossalmente, la qualità non era una conditio sine qua non. Il mio buon gusto si stava plasmando con capolavori senza tempo come Wonder Boy in Monster Land e Bubble Bobble, ma nell’intimità della mia cameretta, ero pronto a sorbirmi qualsiasi cosa, anche solo per il gusto di vedere una sequenza finale. I videogiochi erano buoni anche quando erano cattivi, insomma. Ricordiamo anche che, in questo passato remoto a 8 e 16 bit, Internet non esisteva. L’informazione e la critica erano interamente affidate alle riviste di videogiochi, che divoravo, ma non c’era mai modo di sapere tutto e subito.

Per questo, nel corso degli anni, mi sono beccato un po’ di bidoni. Capitava che mio padre mi regalasse un gioco, spendendo quella che ai tempi era una piccola fortuna (120000 lire per un gioco era un po’ come 120 euro di oggi, pensateci), e che io, apprezzando il gesto, amassi teneramente anche le peggiori porcate, come Fantasia per Sega Mega Drive. A volte, però, capitava che da questi regali casuali, guidati probabilmente dal consiglio di un commesso più o meno onesto (il mio era quello del Pentagono di via Canonica, ora occupato da un eccellente negozio di ingredienti dal mondo), fossero delle figate pazzesche.

Castle of Illusion, con un Topolino vecchio stile in copertina, non mi attirava più di tanto. Era un periodo in cui avevo voglia di pistole, spade, eroi nerboruti e tempeste d’ossa, e questo platform dalle animazioni delicate ed eleganti andava in una direzione ben diversa. Tra l’altro, avevo imparato a diffidare dai giochi su licenza, che una volta su due erano fregature colossali. Invece, fu amore a prima vista.

La musica, la grafica e il gameplay erano una delizia. Castle of Illusion è un platform pieno di idee, tutte realizzate con perizia, che continua a riservare sorprese fino all’ultimo livello. Lo finii nell’arco di una settimana, giocandoci ossessivamente, in ogni momento libero della giornata. Ai tempi, avevo un piccolo tubo catodico nella mia cameretta, attaccato ovviamente al Mega Drive. Mi svegliavo prestissimo, prima dei miei, dicendo che volevo “ripassare per la scuola”. E lo facevo, perché comunque ero una personcina di parola, ma subito dopo attaccavo a giocare. Una partitina prima della colazione, prima di andare a scuola a pensare al momento in cui tornerò a casa a fare un’altra partitina.

Come ormai sa chi frequenta il nostro ospizio, a meno di non essere figli di Mazinga, era molto improbabile ricevere più di uno o due giochi all’anno. Per questo, anche giochi relativamente brevi e sempre uguali a loro stessi, come Castle of Illusion, venivano giocati e rigiocati, alla ricerca di minuscoli segreti, nuove strategie e record. Non ho idea di quante volte l’abbia finito, ma ancora oggi, se lo faccio ripartire, inizio a giocare e non smetto finché non uccido la strega Mizrabel.

Mi batto sempre per separare la nostalgia dal retrogaming, perché credo che il valore culturale di alcuni giochi sia superiore al nostro bisogno di ricordare i bei tempi andati, ma quando parte la musichetta del primo livello mi si accende qualcosa nel cuore. La mia scrivania di legno, il mio piccolo tubo catodico, vivere con i miei genitori, il non preoccuparsi di niente, fare i compiti con la nonna. Posso fare il duro finché voglio, ma a certi videogiochi rimangono attaccati tanti pezzetti di vita. Castle of Illusion è uno di quelli, per me.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata al Sega Mega Drive (Mini e non), che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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