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Buon ventesimo compleanno a Morrowind, il gioco del mio primo lockdown | Racconti dall'ospizio

Buon ventesimo compleanno a Morrowind, il gioco del mio primo lockdown | Racconti dall'ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Se siete venuti qui sperando in una retrospettiva dall’alto valore storiografico su The Elder Scrolls III: Morrowind, che proprio oggi compie vent’anni di gloria, avete sbagliato indirizzo: il Silt Strider più vicino è in fondo a destra, vi riporterà sulla retta via. Se invece vi interessa spegnere le candeline dell’indiscusso miglior Elder Scrolls di sempre ammalandovi anche voi di una malattia altamente contagiosa, seguitemi.

Morrowind uscì nel 2002, quando avevo diciannove anni e un’Xbox nuova fiammante. Fu una mezza rivelazione, il primo (o per lo meno il primo di cui mi accorgessi) vero RPG per PC che veniva portato su console e adattato a un controller e alla comodità del gioco da divano. Conoscevo già Elder Scrolls perché avevo trascorso gran parte dei miei anni di liceo nelle camerette piene di computer di questo o quell’amico, o più spesso nella mia, a giocare con il MIO computer e con i giochi che i suddetti amici mi passavano su dischetti prima, CD dalla dubbia provenienza poi. Ero entrato in contatto così con Arena prima e Daggerfall poi, e soprattutto sul secondo mi ero incastrato per qualche mese con la pervicacia che solo un quattordicenne può dedicare a un singolo gioco imperscrutabile.

Comprai Morrowind dando dentro in cambio un altro paio di giochi che non ricordo, un aneddoto che non ha alcuna rilevanza sulla storia ma che mi permette di guardare senza alcuna nostalgia ai tempi in cui una volta al mese si guardava la collezione e si decideva che cosa sacrificare sull’altare del trading da GameSpot in cambio di un nuovo giocattolo scintillante da spremere per i trenta giorni successivi. Quei pochi che non finivano mai nel tritacarne (i Ninja Gaiden, gli Halo, Half-Life 2) sono quelli che ancora oggi associo automaticamente alla primissima Xbox, la prima console non-Nintendo della mia vita. Molti altri li ho dimenticati, ma sono sicuro che a due o tre di questi va attribuito il merito di avermi portato Morrowind.

Morrowind era, ovviamente, più bello da vedere di Daggerfall, come si addiceva a un gioco uscito dopo. E fin dall’inizio dava la sensazione di essere più curato, più disegnato a mano: uno dei drammi del condividere a distanza l’esperienza di giocare a Daggerfall era l’impossibilità di confrontarsi su strategie ed esperienze di gioco in un mondo immenso nel quale la maggior parte del contenuto era generato proceduralmente. Una cosa che ricordo benissimo di Morrowind è spendere venti minuti nella prima capannuccia del gioco a raccogliere ogni formaggio, bicchiere, tazza e frutto di bosco, e a meravigliarmi di come ogni singolo oggetto nella stanza, le scope, i secchi per il mocio (o l’equivalente fantasy del mocio – la criniera di unicorno, probabilmente), le forchette, fosse esattamente dove mi sarei aspettato di trovarlo in una casetta disegnata a mano e non generata da un algoritmo relativamente primitivo.

Ovviamente questo approccio fatto a mano, favorito anche dalle relativamente ridotte del mondo di gioco, non si limitava al piazzamento di qualche utensile ma si estendeva a tutto Morrowind, in particolare ai suoi comunque infiniti dungeon, rovine steampunk e lazzaretti sotterranei. Ma io di tutto questo non mi accorsi per un bel po’, perché mollai il gioco dopo relativamente poche ore – venti, credo, forse trenta. Andò così: in Morrowind c’è una malattia bruttissima, il CORPRUS, che ha il nome di un gruppo death metal floridiano e gli effetti della lebbra, della peste e del morbo della morte tutti insieme contemporaneamente. Ci sono (questo lo dico con il senno di poi di chi ha finito il gioco svariate volte) due modi per contrarre il CORPRUS in Morrowind. Uno è uccidere prima del tempo un NPC necessario a completare una subquest perfettamente opzionale; un altro è proseguire nella trama.

Vedete, il CORPRUS è una roba orrenda anche in termini di gameplay: ti copre di debuff (meno stamina, meno HP, meno magia eccetera) e soprattutto peggiora nel tempo, per cui se non lo curi entro breve rischi di rovinare per sempre il tuo personaggio. C’è solo un modo di curarlo: innanzitutto è importante non prenderlo dal succitato NPC (altrimenti diventa incurabile e si fa prima a cancellare il salvataggio e ripartire da capo); poi, bisogna proseguire nella trama. Esatto! Questa cosa tremenda che ti rovina il personaggio è in realtà parte della storia, visto che una delle prove che bisogna superare per dimostrare al mondo di essere l’Eletto, il Prescelto, il Nerevarine, è appunto ammalarsi di covid lebbroso e guarire.

La magica città dei funghi della droga.

Per guarire bisogna rivolgersi a un altro NPC, uno studioso che è anche creatore e guardiano di un CORPRUSARIUM, un lazzaretto per vittime di corprus che vanno lì a passare i loro ultimi giorni senza spargere la malattia in giro. Divayth Fyr, questo il suo nome, è molto affezionato ai suoi lebbrosi e non vuole che venga fatto loro del male; il problema è che il suo studio si trova in fondo a un lungo labirinto popolato di malati che mostrano in maniera evidente uno dei sintomi più classici del corprus, e cioè un’aggressività fuori dal normale e una facilità estrema alla violenza. In altre parole il gioco suggerisce, se non richiede, che il corprusarium venga affrontato in modalità stealth, o comunque trattato come un luogo nel quale non bisogna alzare un dito contro i pazienti non importa se stanno cercando di cavarti gli occhi.

Il me diciannovenne trovò il corprusarium vagando a caso, ben prima che la trama principale (che al tempo mi era vagamente fumosa) lo portasse alle porte di Divayth Fyr. Il me diciannovenne non prese neanche particolarmente sul serio le decine di avvertimenti tipo NON TOCCATE I MALATI CHI TOCCA MUORE che precedono l’ingresso a questo luogo di malattia e decadenza. Il me diciannovenne, di fronte al primo turbolebbroso aggressivo, reagì come avrebbe fatto qualsiasi diciannovenne con squilibri ormonali: agitando il suo spadone. Massacrai mezzo lazzaretto prima di trovarmi infine di fronte a Divayth Fyr in persona, infuriato con me e deciso a farmi il culo. Glielo feci io, poi mi rimisi in viaggio. Qualche ora dopo, la trama mi portò finalmente ad ammalarmi di corprus, e mi consigliò di andare in cerca di Divayth Fyr per guarire.

Fu lì che cancellai il salvataggio e non toccai più Morrowind per qualche mese.

Fino a quando non mi venne il corprus (v. foto).

L’autore, ca. anni 19

In realtà era la mononucleosi, e ancora oggi né io, né credo la mia fidanzata di allora saprebbero spiegarvi come me la sia presa e come abbia fatto a non passarla a lei. Il corprus mi costrinse a chiudermi in casa isolandomi dal resto del mondo e anche dalla mia famiglia: non potevo uscire (se non in teoria a fare due passi con la mascherina, ma tanto ero debole come una medusa al sole e non avevo granché voglia di alzarmi dal letto), non potevo vedere gli amici, non potevo mangiare insieme ai miei genitori e a mio fratello. E ovviamente mi sentivo uno straccio, e ogni volta che facevo un esame del sangue c’era sempre qualche valore epatico normalmente compreso tra 5 e 15 che nel mio caso arrivava a 350.

Durò due mesi, e l’unica cosa che feci in quei due mesi fu giocare a Morrowind. Lo ricominciai, e mi impegnai questa volta a leggere tutto e a capire tutto quello che stava succedendo – il passaggio dalla rigida sedia da ufficio del gioco su PC al molle divano del gioco su console mi aveva riportato a uno stadio primitivo, una condizione regressiva che si manifesta principalmente con la pressione furiosa e costante del tasto “Skip dialogue”, e avevo tutte le intenzioni di ri-evolvermi. Un gioco che conteneva così tanta letteratura, così tanta lore, ma anche così tante informazioni utili a vivere al meglio il suo mondo in decine e centinaia di libri diversi era il modo perfetto per mettermi alla prova: ogni volta che mi alzavo dal letto e mi trascinavo sul divano per giocare a Morrowind sapevo già che avrei dedicato la metà del tempo ad accumulare e leggere libri di storia e mitologia (gli stessi che verranno poi riciclati nel mediocre Oblivion e in quell’altro gioco del quale non voglio neanche cominciare a parlare perché ci tengo alla mia incolumità).

L’ultimo nano.

L’altro giorno ho platinato Elden Ring e mi avvicino alle trecento ore di gioco, per dire quanto mi piaccia quel gioco e tutti i precedenti giochi FROM, ma non posso fare a meno di sorridere quando lo vedo celebrato perché “non ti tiene la mano”, “non ti guida verso l’obiettivo con delle grosse frecce al neon”, “lascia al giocatore la libertà di esplorare e creare il suo percorso”. Morrowind riusciva a fare questa cosa miracolosa di dirti tantissime cose senza dirti un cazzo. Le informazioni, le indicazioni, gli aiuti, le risposte a misteri apparentemente irrisolvibili, erano sparse per il mondo ma andavano cercate, e in certi casi desunte sulla base di altre informazioni collaterali. Non era un gioco da quest marker da seguire e da checklist di obiettivi (divisi rigorosamente in Main e Sub), era un gioco nel quale, parlando con un NPC non evidenziato in maniera evidente con un grosso “!” sopra la testa, scoprivi che dopo quel crinale e in fondo a quella valle si nasconde un’antica rovina nanica.

Era un gioco che ti diceva “devi superare sette prove per andare a parlare con dio” e le prove erano tipo “diventa il profeta delle tribù nomadi”, e stava a te scoprire cosa volesse dire e come raggiungere quel risultato. Era un gioco nel quale potevi uccidere per sbaglio un NPC centrale per la trama principale senza che il gioco ti avvertisse, ti consigliasse di ri-caricare un salvataggio precedente. Era un gioco che finiva e dopo una breve cerimonia e due congratulazioni ti risputava nel suo mondo, libero di girare e continuare a inseguire avventure e storie pazze. Da qualche parte ho un salvataggio da almeno sessanta ore nel quale non ho ancora neanche fatto i primi passi della quest principale; e un altro da almeno trecento nel quale sono il dio eroe salvatore del mondo e la gente si inchina quando passo e mi lancia i fiori e il pazzo cash perché grazie alle mie eroiche azioni il cielo è finalmente libero dai Cliff Racer, senza fatica il peggior mobbino volante di qualsiasi videogioco mai creato.

AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

Non c’è mai più stato un RPG come Morrowind, quantomeno non con questo budget e con questo livello di esposizione; i due successivi Elder Scrolls in particolare hanno messo da parte la vera libertà (di agire e soprattutto di sbagliare) di Morrowind sostituendola con un’illusione di libertà che si traduce nella maggior parte dei casi nella ripetizione ossessiva di task sollevati di peso da un MMORPG di media qualità. Ma non vorrei perdermi a inseguire i brutti eredi di Morrowind, non nel giorno del suo ventesimo compleanno; non voglio rovinare la magica giornata di un gioco che contiene tra l’altro una città di maghi che vivono nei magici funghi giganti della droga.

Ecco, ora mi è venuta voglia di rigiocarci.

Io e gli open world

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La realtà virtuale è morta: viva la realtà!

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