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Bully, Jimmy Hopkins era poco più di un Bart Simpson | Racconti dall’ospizio

Bully, Jimmy Hopkins era poco più di un Bart Simpson | Racconti dall’ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

“Perché, perché nessuno pensa ai bambini?!”

Questa frase è il tormentone che Helen Lovejoy, moglie del famoso Reverendo de I Simpson, pronuncia ogni volta che qualcosa mette potenzialmente in pericolo l’innocenza dei suddetti fanciulli.

Pur essendo un personaggio di fantasia, Helen Lovejoy esiste e si è moltiplicata, incarnandosi in uno stuolo di benpensanti pronti a manifestare il proprio sdegno anche quando non ce n’è reale motivo.

Rockstar, già protagonista dell’era PlayStation 2 con i vari Grand Theft Auto, Red Dead Revolver, Max Payne e compagnia bella, amava senza dubbio pubblicare titoli provocatori e politicamente scorretti: oltre alla trilogia di GTA aveva destato un certo scalpore anche Manhunt, titolo in cui il giocatore impersonava un detenuto intento a fuggire da una sorta di città fantasma, dovendo eliminare in maniera silenziosa assassini e criminali vari che lo aspettavano per fargli la pelle. Non contenti, i fratelli Houser decisero di solleticare nuovamente l’opinione pubblica con Bully, gioco in cui avremmo dovuto impersonare tale Jimmy Hopkins, bulletto che aveva lo scopo di imporre la sua temibile figura nella sua scuola, terrorizzando insegnanti e secchioni.

Apriti cielo. Gente come Jack Thompson, l’avvocato nemico numero uno di Rockstar, non aspettava altro: negli USA il titolo venne messo in vendita solo dopo la sentenza favorevole di un giudice, mentre in paesi come Australia e Brasile ne fu vietata la commercializzazione.

In Italia, se ne discusse addirittura in Parlamento – luogo dove si dovrebbero discutere argomenti giusto un filo più importanti – perché, secondo i nostri lungimiranti politici, giocare a Bully avrebbe favorito la nascita di comportamenti vessatori e prepotenti nelle scuole. Qualcuno avrebbe dovuto spiegare loro che la rivalità fra bulli e secchioni esiste fin dalla notte dei tempi, come disse Nelson Muntz in una puntata dei mai troppo citati I Simpson.

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Alla fine il gioco uscì in Europa con il titolo Canis Canem Edit, meno esplicito dell’originale, che significa “Cane mangia cane”. La frase era in realtà il motto della scuola dov’è ambientato il gioco, la Bullworth Academy, ed era un sottile riferimento allo scopo principale del gioco, cioè far conquistare a Jimmy Hopkins il titolo di re dell’istituto.

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Bully, all’epoca della sua pubblicazione, non mi interessava particolarmente: era la fase finale della generazione PlayStation 2 e guardavo con maggiore interesse a ciò che sarebbe arrivato in quella successiva. Poi, un paio di anni dopo, il rilascio di una sorta di edizione deluxe del gioco, intitolata Scholarship Edition, mi convinse ad acquistare il titolo Rockstar, più che altro per vedere quali elementi avevano scatenato le ire delle varie Helen Lovejoy sparse per il globo.

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Rumore, tanto rumore per nulla: Bully era un titolo all’acqua di rose.

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Niente armi, niente sangue, niente elementi provocatori, politicamente scorretti o riferimenti sessuali (tranne qualche casto bacio). Jimmy Hopkins, più che un temibile bullo, sembrava una sorta di Bart Simpson, solo più spavaldo e arrabbiato: Il protagonista del gioco poteva infatti utilizzare skateboard e biciclette per muoversi lungo le strade della cittadina e utilizzare temibilissime armi quali una fionda, fialette puzzolenti, biglie, uova e un potente – ehm – sparapatate. Anche la violenza era ridotta al minimo: giusto qualche scazzottata a base di pugni e assi di legno, non si poteva praticamente uccidere nessuno. Anche il famoso “pericolo bullismo” era, a conti fatti, inesistente: durante le missioni principali, Jimmy Hopkins aiutava spesso e volentieri i più deboli, scontrandosi invece contro i ben più temibili “Fighetti” e “Palestrati”, due delle numerose fazioni presenti nel gioco.

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Alla fine Bully si rivelò un titolo discreto e neanche troppo originale: le missioni principali vedevano spesso Jimmy intento a recuperare oggetti, difendere qualche personaggio o protagonista di atti vandalici. Nonostante tutto, il gioco Rockstar vendette abbastanza da guadagnarsi l’ingresso nella collana Platinum e la sopra citata riedizione Scholarship Edition nella generazione successiva, diventando un piccolo cult fra gli appassionati, dando vita anche a improbabili fan theories come quella secondo cui Jimmy Hopkins da adulto sarebbe diventato James Earl Cash, protagonista del sopra citato Manhunt.

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Bully compie questo mese quindici anni e nei mesi scorsi Rockstar ne ha rinnovato il marchio, cosa che potrebbe far pensare allo sviluppo di un eventuale seguito. Staremo a vedere se Jimmy Hopkins tornerà effettivamente in scena o se andrà a far compagnia a Max Payne, L.A. Noire e agli altri titoli messi in naftalina dalla software house statunitense.

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