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Racconti dall'ospizio #68: Yoshi’s Island, l’isola dell’accettazione del sé

Racconti dall'ospizio #68: Yoshi’s Island, l’isola dell’accettazione del sé

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Eravamo la Nutella che sporcava la tovaglia di plastica, eravamo i popcorn che non erano buoni quanto le Rodeo ma ce li facevamo andare bene lo stesso. Eravamo i prodotti su licenza che erano tutti belli perché erano su licenza di quello che più ci piaceva. Eravamo reprensibili e incoscienti.

Questo prima.

Prima che ci formassimo un abbozzo di coscienza critica e una visione del mondo. Quand’è successo? Quando è cominciato il processo che ci ha portato a barattare l’innocenza con la conoscenza? C’entra il primo bacio? O è solo il counter delle ore di vita che sale e il final countdown che da mite si fa opprimente?

Fatto sta che a un certo punto della vita, quello che prima ci facevamo andare bene non ci andava più bene per nulla e tutto diventava bersaglio del faticoso - ma di colpo necessario - processo di critica. Esiste un libro stupendo di Northop Frye chiamato Anatomia della critica, che da anni millanto di aver letto ma che in realtà ho letto al 20%, ma che merita leggere di sicuro anche solo per quel 20%, perché è lì che ho pensato: Yoshi’s Island è la mia cartina al tornasole, il mio paziente zero per quanto concerne il senso critico.

La verità è che non ricordo assolutamente perché avessi, leggendo Frye, collegato Yoshi’s Island al libro in questione. Ma il ragionamento resta valido. Nintendaro da Donkey Kong in poi, Mario e i suoi giochi avevano rappresentato per me un crescendo rossiniano costante, o almeno credo, perché di Rossini conosco due brani in croce che partono come finiscono, non crescono, ma tant’è: i giochi di Mario erano, cronologicamente, proprio, uno più fico dell’altro. Sempre. Ogni volta. (No, Doki Doki Panic non conta). Con coerenza. E servivano come metro di paragone verso tutto il resto. Al punto che a un certo punto la cosa stava prendendo l’aspetto di un dogma. Pericolo! Ciò che forgia il tuo senso critico ti fa diventare un religioso del Mario! Un fanboy del fuck Sonic! Financo un acritico dogmatico! Non è terribile?

Ha naturalmente le sue belle responsabilità Super Mario World, a tutt’oggi il gioco più bello della storia dei videogiochi, oggettivamente, proprio. Quindi l’affare si fece scomodo per il suo successore, che prima o poi sarebbe dovuto arrivare e fare i conti col suo predecessore, che infatti si dimostrò inscalfibile nella sua perfezione, al punto da mettere in difficoltà il suo successore, che non poteva competere con la luce mirabile che scaturiva dal suo predecessore. Cazzi! Cazzi amari per Yoshi.

[Come nota a margine, l’espressione “cazzi amari” mi ha sempre colpito: così brutale, quasi brutalista, eppure così pret-a-porter. La segretaria posh della grande azienda milanese, all’aperitivo potrebbe tranquillamente, con sguardo d’intesa, parlare alla sua amica che lavora allo showroom e commentare i suoi problemi lavorativi con un “Cazzi amari, insomma”. Come l’uso reiterato di un’espressione ne annacqua la connotazione semantica originale! Pensate anche a “Me ne frego”. Seriously]

Quindi, per Yoshi’s Island, la strada si prospettava, e si prospettò, parecchio impervia. Essere un ottimo gioco non bastava, e non bastò. Che sbatta! Perché sui Mario flagship vige questa maledizione di doversi superare sempre e altrimenti eccoli là tutti pronti col ditino a dire "E no, non ci siamo". Non hai alzato l’assicella per gli altri. Non hai creato un nuovo metro di paragone che noi non più infanti ma finalmente eterni adolescenti con senso critico possiamo usare nelle nostre inutili diatribe su cosa sia degno e culturalmente rilevante, palestra della nostra capacità di rapportarci con presenza di spirito al medium videoludico.

Svegliarsi nel cuore della notte tutti sudati urlando “BITTANTIIIIIIII!!!” A chi non è mai successo, d’altro canto.

"Ma sul serio?"

Quindi, Yoshi’s Island, rompendo la winning streak della perfezione Mario Flagship Title, ci ha regalato una coscienza critica più sfaccettata, non fatta di fregnacce “The best just got better” ma di “Vive la difference”. A conti fatti, andandosene per i cazzi suoi in un mondo di pastelli colorati e girasoli gioiosi, Yoshi può essere considerato l’iniziatore della Nintendo Difference. Perché, prima, Nintendo era nel mondo giappoconsoloso la cosa più mainstream che si potesse concepire. Lo ha ricreato, il mainstream, raccogliendo la pupù di Atari e reinventando la console. Ma Yoshi’s Island è un grido d’indipendenza, una costola che si stacca dal mainstream stesso generando una stella danzante - un nuovo franchise, infatti, che non è più nel canone del Mario Flagship Title. Se lo tiene e se lo coccola per un po’, quel sottotitolo Super Mario World 2, ma non ci crede nemmeno Yoshi, che infatti alla prima occasione si morpha in un trenino, che usa come rotaie dei disegni a matita fatti sul muro di sfondo. E ti saluta con l’altra mano. Ciuf ciuf!

Noi che volevamo crescere, spiazzati da una svolta pastellosa puccettosa, ma come, e Doom? E l’Advanced Computer Modeling multimilionario di Rare? Ma non è che ‘sta puffettosità di Yoshi’s Island poi ci intossica? Touch Fuzzy, get dizzy? Cristo! L’ultima tentazione, notti sofferte a sognare MBF e poi l’accettazione, sì, Yoshi’s Island è bello, è splendido, si cresce davvero solo quando non si ha paura dell’infanzia, l’eterno specchio brillante dell’anima, l’unico a riflettere la nostra immortale luce interiore. E allora pastellli, giocattoli, Mario bebé, bollicine e scimmiette al grido di “Nietsche, Nietsche, vaf-fan-culo!” Laddove per “Nietsche” si intende un generico, non documentato riferimento alla teoria del Superuomo ergo semplificazione a livello space marines cazzuti ergo Duke Nukem ergo decapitare con uno shotgun un nemico ergo defecargli nella spina dorsale ergo spalma. QUESTO significava “I videogiochi stanno crescendo, stanno esplorando nuove tematiche”. E invece no. Yoshi, trenino. Musica di Koji Kondo in stato di grazia che scaldava i muscoli cardiaci per poi spazzarci via con l’uno-due di Mario 64 e Ocarina. Takashi Tezuka più al comando e Miyamoto già a strippare sul Nintendo 64, che l’avrebbe portato all’esaurimendo. Per far rima con Nintendo.

Spirito critico, ancòra e àncora. A voi cosa piace? Io, con Yoshi’s Island, ho avuto la conferma che mi piacciono i fiori, l’estetica rakugaki, la poesia naïf sapientemente costruita da chi ha un cuore così puro che nel generare un artefatto creativo riesce a non insozzarlo col sudore e il sangue della fatica che ha fatto per riuscire a generarlo. Ho sempre provato verso l’estetica di Doom l’empatia che provo per un cesso pubblico. Donkey Kong Country? Un pugno in faccia al teatro di marionette mentale del Miyamoto early Eighties - per fortuna poi recuperato dalla saga Mario vs Donkey Kong e, in una fiammata misteriosa e unica, da Donkey Kong Jungle Beat (e da Retro Studios, che con Donkey Kong Country Returns ha costruito una roba mille volte più solida e stilosa dei predecessori Rare). Su Amiga si salvava Psygnosis per la potenza inaudita delle sue idee e della sua direzione creativa d’insieme, prima ancora dei giochi in sé. E poi quelle robe matte che solo chi pensa su computer riesce a sviluppare, da Populous a Hunter a Frontier a Midwinter ma non divaghiamooo / o o o, ma non divaghiamooo / nò nò nò nò!  

Yoshi’s Island, per me, ha rappresentato il coraggio di seguire fino in fondo il mio gusto. Di amare alla follia un gioco anche se il suo mero game system non era perfetto, anzi, a tratti goffo, sicuramente inferiore, in termini astratti, a quello del precedente Super Mario World. Perché da quando cominciai a sentirmi addosso come tutto un senso critico videoludico, ero arrivato a un livello di astrazione per cui contava solo il game design, tutto il resto era fuffa. Quindi Doom, siccome era da un punto di vista prettamente ludico eccezionale, andava PER FORZA amato. Che fatica accettare, a colpi di Yoshi, che non è così, che non di solo game design vive il videogiocatore. Serve la palette giusta. Serve la musichina giusta. Serve, oddio, perfino un presupposto narrativo, se non una storia vera e propria. Perché siamo giocatori, prima che game designer. Anche quando siamo game designer. Sennò non ti piace il gioco: ti piace il meta-gioco, l’analisi del medesimo. L’ideale, per me, è un mix tra esperire il gioco a livello zero e meta-giocarlo.

Yoshi’s Island, in questo senso, è il mio paziente zero, il gioco in grado di farmi giocare col cuore e metagiocare col cervello. È possibile che voi, in quel momento, abbiate provato un’analogo piacere con qualcosa di radicalmente opposto, come i giochi citati poc’anzi. O civ.exe, o qualsiasi cosa. Questa è la magia del gusto personale, che è un privilegio che non ce l’hanno mica tutti,eh. Quindi godiamocelo, ‘sto gusto personale, che a me condusse su soffici nuvolette mentre il sole albeggia, e magari a voi dal Duca mentre scorreggia. Ma va bene! Nessuno vince! Nessuno perde! Ognuno gode per conto suo e poi, magari, se proprio vogliamo un altro metagioco, io fan di Yoshi’s Island e tu fan di Carmageddon possiamo divertirci a confrontare garbatamente le nostre incompatibili visioni del mondo. Imbecille.

Questo articolo fa parte della Cover Story "Aspettando il Nintendo Classic Mini: Super Nintendo Entertainment System", che trovate riepilogata a questo indirizzo.

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