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Ready Player One: l’OASIS di Spielberg  non è un posto per vecchi

Ready Player One: l’OASIS di Spielberg non è un posto per vecchi

Durante le vacanze di Pasqua del 1992, ché ero solo un ragazzetto senza macchina né motoretta, avevo obbligato mio papà a darmi uno strappo fino a Varese per poter grufolare in non so quale negozio di videogiochi.

Sulla via del ritorno, con già in saccoccia la mia bella copia di Monkey Island 2, lo avevo addirittura convinto a fare tappa in un cinema, che per lui era un po’ un mezzo miracolo. E non perché mio padre all’epoca non amasse i film, anzi. Però amava decisamente di più le sue Marlboro Rosse. E da quando nel 1975 era passato il divieto di appizzare sigarette nelle sale di proiezione, l’idea di non poter fumare per due ore e passa di fila - per di più, durante la visione di un film che «se poi becco l’attore che accende, mi viene ancora più voglia» - lo faceva uscire di testa. In genere, finiva col recuperare i filmini al mare, in qualche arena all’aperto, e non è un caso se nel nostro quartiere siamo stati i primi a possedere un videoregistratore e l’abbonamento al videonolo.

Però quel tardo pomeriggio si stava bene, tirava un bel freschetto. Mio padre era in buona, passavano Hook, e col fatto che Steven Spielberg gli è sempre andato a genio, abboccò.

Usciti dalla sala, io ero ancora lì, tutto contento: un po’ per la situazione di comunione padre-figlio (piuttosto rara, qui dalle mie parti), un po’ perché il film alla fine non mi era nemmeno dispiaciuto. Tra l’altro, faceva pendant con Monkey Island.

Mio papà pure sorrideva, ma si capiva che Hook non gli era andato tanto a genio: evidentemente, a quel giro Spielberg aveva spinto troppo sul bambinesco per i suoi gusti, che non erano fatti per superare la linea tracciata da E.T. l’extra-terrestre.

Ecco, ieri pomeriggio, all’uscita dall’anteprima di Ready Player One, credo di essermi sentito più o meno come mio padre. Dico “più o meno” perché comunque ho trovato il film più riuscito di Hook. Eppure, ecco, non mi sono sentito a mio agio e in linea col target di riferimento.

Oddio, qualche volta succede, per carità, di finire davanti a un’opera evidentemente pensata per altri, e di godersela tutta lo stesso. Mi è capitato relativamente di recente con Tomorrowland che, per quanto piacevole, resta un film per ragazzini. Però, con Ready Player One è diverso, perché mi sentivo tutto in diritto di essere in target, io, che a suo tempo avevo apprezzato il libro. Io, amante dei videogiochi e della cultura pop, che ho pure passato un bel pezzo d’infanzia a mollo negli anni Ottanta.

Per chi poteva essere stato girato, un film del genere, se non per me?

E invece, la rilettura di Spielberg del romanzo omonimo di Ernest Cline mi ha preso in contropiede.

Non voglio metterla sul “è meglio o peggio del libro”, ché non ha senso e me ne frega anche poco. Mi limito solo ad annotare che il romanzo del 2010 ha centrato i trenta/quarantenni perché, tra le altre cose, parlava loro attraverso le corde vocali della nostalgia, volteggiando sbarazzino tra i riferimenti della cultura pop anni Ottanta, da un “celo celo manca” all’altro.

Invece, il film di Spielberg, al netto dei pregi e di qualche difetto, non è uno Stranger Things o un It. Non ci sono “i ragazzini alla Goonies che sotto-sotto siamo un po’ noi, vecchi Peter Pan, eccetera eccetera”. Tutt’altro. Nonostante le apparenze, l’adattamento di Ready Player One è stato nettamente pensato e colorato a favore degli adolescenti - quelli veri - di oggi, per quanto a dirigerlo sia stato un signore sulla settantina.

Ora, l’idea di partenza resta la stessa della fonte letteraria: in un futuro prossimo devastato da guerre, disastri ecologici e crisi energetiche varie, la gente passa tutto il proprio tempo nell’universo virtuale di OASIS, sorta di contenitore che ospita a sua volta tutti i vari universi narrativi concepiti dall’uomo dalla seconda metà del Novecento in avanti (più o meno). Videogiochi, film, libri, fumetti, serie TV: immaginatevi una sorta di internet futuristico in VR, pieno zeppo di posti da visitare e contenuti di ogni genere da spupazzare.

Chiaro, a OASIS la gente può pure andarci solo per sciare o abbronzarsi, ma ovviamente le cose che vanno per la maggiore sono altre. Tipo, chessò, deatmatch devastanti sul pianeta Doom, cordate sull’Everest in compagnia di Batman o gare a rotta di collo a bordo di veicoli fantascientifici.

Questo paradiso artificiale è stato progetto dal visionario game designer/inventore James Halliday (interpretato da Mark Rylance, assolutamente perfetto), che alla sua morte ha nascosto le chiavi del regno all’interno di un easter egg, la cui ricerca rappresenta, nel 2044 che ospita la storia, la sacra missione degli “egg hunter”, meglio noti come gunter.

Il protagonista, Wade Watts aka Parzival (Tye Sheridan), è un cacciatore dell’easter egg, così come cacciatori sono i suoi amici: Art3mis (Olivia Cooke), Aech (Lena Waithe), Daito (Win Morisaki) e Shoto (Philip Zhao). Non sono certamente gunter, invece, il cattivone Nolan Sorrento (Ben Mendelsohn) e i suoi scagnozzi della IOI, una multinazionale che vorrebbe corrompere OASIS riempiendolo di pubblicità e facendone un paradiso per ricchi.

Con quella sua aria stralunata da tizio perennemente fuori posto, Mark Rylance è forse il miglior James Halliday in cui si sarebbe potuto sperare.

Ora, niente di troppo originale, ma c’è tutto quello che serve per far filare dritto un buon racconto d’avventura. Tuttavia, se nel romanzo a oliare il meccanismo narrativo era il gioco di rimandi e citazioni pop al servizio dei trenta/quarantenni, nel suo film, Spielberg, oltre a rivisitare la caratterizzazione di alcuni personaggi, snellisce di molto la struttura del racconto, tagliando alcuni intrecci, mescolando qualche carta, accelerando i tempi e glissando su buona parte delle backstory. Soprattutto, viene meno fin da subito il gioco di “sovrapposizione generazionale” che sulle pagine di Cline faceva specchiare il trio di Wade, Aech e Art3mis in quello composto da Halliday, dal suo socio e amico d’infanzia Ogden Morrow (interpretato da Simon Pegg) e dalla moglie di questi, Kira (Perdita Weeks).

Addirittura, per la prima mezz’ora ho avuto quasi la sensazione che il testo di Ernest Cline - che comunque ha collaborato alla sceneggiatura del film assieme al veterano Zak Penn (tra i tanti: Last Action Hero, The Avengers) - col tutto il suo citazionismo sfrenato e il gusto per la nostalgia, sia quasi pesato a Spielberg, al punto che il marchingegno prende a funzionare meglio dal momento in cui il regista si scrolla il libro di dosso e fa prevalere il suo immaginario su quello di Hallyday, che è giocoforza simile, sì, ma non esattamente lo stesso.

Spielberg non è un nostalgico, o perlomeno non sembra, e il suo Ready Player One non è un film per nostalgici, né ha l’aria di volersi indirizzare nello specifico ai lettori del libro, anzi.

Gioca pure lui con le citazioni, per carità, ma su un livello più docile: tolti i riferimenti, diciamo, di background (e sono sicuro che l’internet sta già esplodendo di thread che cercano di metterli tutti in fila), quelli che passano in primo piano sono abbastanza mainstream.

È anche vero che il libro, proprio per questioni strutturali e di linguaggio, era costretto a battere nero su bianco ogni minimo cameo, mentre Spielberg riesce a infilarne un centinaio in un singolo fotogramma. Eppure, paradossalmente, fanno meno rumore.

Il regista di Cincinnati, come ho detto, consegna il film al presente, ai ragazzi e ai ragazzini di oggi, e proprio sul loro immaginario condiviso sceglie di modellare il grosso dell’apparato estetico del suo OASIS. Dal design degli avatar alle pettinature, ai colori, fino alle architetture, non c’è nulla di veramente vintage, nell’estetica delle sequenze d’animazione - quelle “virtuali” - del film, a parte qualche riferimento qua e là e le musiche che passano di sottofondo.

I riferimenti grossi sembrerebbero piuttosto i videogame e le icone di questi ultimi anni: a livello visivo, Ready Player One mescola senza complessi lo stile dei JRPG di Square Enix con Overwatch, League of Legends (Aech è evidentemente un campione degli esport del futuro), assieme a una bella manciata di sparatutto. Addirittura, ci ho visto qualcosa di ARMS e, perché no, di World of Warcraft. E il bello è che, per quanto possa sembrare assurdo, il risultato di questa bisboccia è sorprendentemente uniforme, per merito dei colori metallizzati nei quali è stato pucciato.

Ci ho messo un po' ad entrare in sintonia col design dei vari avatar "live action", ma alla fine devo ammettere che ci sta.

A essere vintage nella messa in scena, semmai, è tutto quello che resta fuori dal mondo virtuale, con gli esterni posticci che sembrano usciti dal set del secondo Ritorno al Futuro, con tanto di effetti sonori retrò.

Detto questo, sarà che sono entrato in sala col libro per la testa (lo so, non si dovrebbe mai, ma ormai è andata), sarà che sono uno dei vecchi-giovani a cui il film si diverte a fare lo sgambetto, ma la mia esperienza con Ready Player One non è andata come avrei sperato. In primo luogo, a parte i veterani Mark Rylance e Ben Mendelsohn (Simon Pegg mi è passato via un po’ così, anche se per questioni di SPOILER dovrei riguardare il film in lingua originale), il cast non è riuscito a trascinarmi particolarmente. Wade e i suoi amici, apparentemente, non raggiungono, o perlomeno non comunicano, l’affiatamento dei ragazzini di It o della cricca di Stranger Things. Siamo più dalle parti (anche generazionalmente parlando) di certi Young Adult alla Maze Runner. Oddio, forse un po’ meglio a livello di direzione, ma insomma, eh.

Al di là del cast, ho sofferto un po’ i tempi troppo compressi della narrazione. Forse un filo d’aria in più non avrebbe guastato, anche solo per lasciare respirare meglio i vari personaggi. Per via di questa faccenda, mi è arrivata con fatica anche l’epica. Molte sequenze d’azione sono spettacolari, e nel complesso, con Ready Player One, mi sono divertito, ma non mi sono mai sentito particolarmente emozionato o galvanizzato.

Essì che alle volte bastano davvero quattro cazzate piazzate giuste per fare fomento: penso ai fratelli russi che incedono massicci in Pacific Rim, a Charlize Theron che esce dal ghiaccio in Atomica Bionda o alla faccia di Nicholas Hoult appena un attimo prima di chiedere ammirazione in quella scena pazzesca là.

Le scene di massa sono davvero buone, soprattutto la gara all'inizio del film (nella foto, un po' di fan service).

Ripeto, entrando in sala, non andavo cercando il pippone né tantomeno una fotocopia del libro, ché quello tanto è lì, e lo posso leggere quando voglio. Però mi aspettavo qualcosa di emotivamente più forte, e qualche molla in più, tesa meglio, infilata dentro ai personaggi principali.

Così com’è, ho la sensazione che per la fotta di uscire dai binari del testo e fare qualcosa di – giustamente – diverso, Spielberg e gli sceneggiatori abbiano finito per assottigliare un po’ troppo il racconto, generando dissonanza rispetto alla ricchezza visiva del film.

Oppure, sono davvero fuori target io, che vi devo dire? Magari sto proprio diventando un vecchio trombone.

Ho guardato Ready Payer One in anteprima stampa, in versione 3D e in italiano. Come ho ben scritto, nonostante abbia apprezzato lo sforzo di Spielberg di uscire dal seminato e di fare il suo film, e al netto di una messa in scena a tratti clamorosa, non sono riuscito a partecipare emotivamente all’azione. Problema mio? Può essere. Ad ogni modo, i film brutti sono altri.

Questo articolo fa parte della Cover Story su Ready Player One, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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