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Vietcong, dove sei?

Vietcong, dove sei?

Vorrei capire se solo io sento prepotentemente la mancanza di uno sparatutto cucito con perizia e ambientato nella guerra del Vietnam – come fu il clamoroso Vietcong di Illusion Softworks – o se tra di voi c’è qualcun altro che ha fatto lo stesso pensiero. Sono passati quindici anni da quel gioiellino e, a parte un seguito non proprio riuscitissimo (non quanto il predecessore, per lo meno), da allora non si è più visto nulla di simile. Battlefield e Call of Duty hanno un po’ fagocitato il genere, prendendo strade diverse e tornando – di tanto in tanto – alle origini. La necessità di strizzare l’occhio ai nuovi target di riferimento e, in parte, al mondo degli esport (e dei Battle Royale, più recentemente) non è chiaramente un invito per Electronic Arts e Activision a ragionare sull’argomento: l'ambientazione è forse passata un po’ di moda, e se escludiamo dal lotto Bad Company 2: Vietnam, che ormai ha otto anni suonati sul groppone, e un pezzetto del primo Call of Duty: Black Ops, non resta che raccogliere le briciole. Eppure, io me lo godrei assai un nuovo videogioco ambientato in quel Vietnam sporco e ricco di umana contraddizione che ha fatto da scenario a una fra le guerre più assurde e folli che la Storia ricordi.

A voler ben vedere, l’unica roba che ci si è un po’ avvicinata è lo splendido Spec Ops: The Line, che se da un lato ha sostituito le foreste umide e scontrose del Vietnam con le sabbie soffocanti di Dubai, dall’altro ha trattato tematiche che richiamano alla mente un capolavoro indiscusso della cinematografia come Apocalypse Now, anche se dell’odore del napalm al mattino non ce n’è davvero traccia, nel gioco di Yager Development. È tuttavia singolare come Vietcong 2 e Spec Ops: The Line siano entrambi pargoli partoriti da 2K Games, un fatto non secondario e che potrebbe spingere il publisher – più poi che prima, purtroppo – a un merge dei due progetti. Insomma... se Yager Development venisse messa nelle condizioni di pensare a un Spec Ops: Vietnam, io sarei il primo a gioirne.

Certo, c’è da fare i conti con un settore il cui cuore economico pompa il sangue verso altre direzioni, e i già citati Call of Duty e Battlefield sono lì a memento di come (ormai) per fare soldi certi ci si debba rivolgere a un target ben preciso, probabilmente lontano da quello che accoglierebbe a braccia aperte un videogioco che punti principalmente al single player, che sia rognoso il giusto e che stringa il giocatore in una soffocante situazione di impotenza mista a celodurismo. Eppure, credo che con l’approccio corretto – a cominciare da una sceneggiatura adulta e pensata a modo – ci sia spazio per godere ancora di quella impareggiabile sensazione di claustrofobica tensione che solo le foreste del Vietnam e il tignoso attaccamento alla terra natia che hanno palesato i suoi abitanti sono in grado di regalare. Dopotutto, MachineGames ci ha mostrato che si può fare: Wolfenstein: The New Order prima e Wolfenstein II: The New Colossus poi incarnano la certezza granitica che il single player ha ancora mercato se si fanno le cose a modino, e chiaramente andrebbero evitate porcherie inenarrabili come Rambo: The Video Game, ché, insomma… anche no. Nell’attesa, credo tirerò fuori dall’armadio il mio vecchio Commodore 64 e mi farò un bel giro su Platoon: d’altronde, come diceva il buon Soldato King, «Tieni le munizioni pronte e il cazzo dritto, e il destino cambierà». Speriamoci.

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