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Ventiquattro ore di anni Settanta nell’ipod di Andrea Babich

Ventiquattro ore di anni Settanta nell’ipod di Andrea Babich

Ciao, sono Andrea Babich e mi avete letto nel 99.9% dei casi alle prese con roba legata ai videogiochi. Però, in realtà, sapete cosa mi piace? La musica. Mi piace un botto la musica, esplorarla, scoprirne di nuova, possibilmente vecchia. Non dico che non ci sia musica nuova buona tra quella appena uscita. Ma innanzitutto datemi una decina di anni di decantazione. E intanto ascoltiamoci qualcosa… degli anni Settanta. Così mi ha intimato Andrea Maderna. Parente forse di Bruno Maderna, il compositore morto nel 1973? No, perché “Maderna” era uno pseudonimo. Ma magari lo è anche per Andrea Maderna, che in realtà di cognome fa Giopep.

Io sono nato proprio negli anni Settanta. Ho passato la mia fetta di vita degli anni Settanta circondato da musica di fattura decente assorbita passivamente. Non ricordo granché. Ricordo mia madre che mi cantava Gianni Morandi sulla 126 azzurra. Ricordo mio padre che amava Aznavour e si sforzava di farsi piacere Beethoven ma alla fin fine, a lui e l’insalata, preferiva Sinatra. Ma era tutta roba poco anni Settanta. Bon, sì, un po’ di Mina, Bennato e Samarcanda nell’autoradio per le gite. A loro si vede che gli anni Settanta musicali più di tanto non interessavano. I loro erano anni Settanta di case, avere prole, il lavoro, insomma roba più adulta che ascoltare musica anni Settanta. Quindi a me arrivava principalmente la musica anni Settanta che passava in televisione. Ovviamente c’era roba sopraffina, roba inutile, roba nel flusso televisivo che non percepivi nemmeno come musica ma come parte di un flusso multimediale indistinto. Però importantissima, perché hai da 0 a 6 anni e sei una spugna inconsapevole di musica anni Settanta. Alcune impressioni musicali sono molto precise: per esempio, la prima volta che ho sentito Stand Up dei Jethro Tull, nel 1990, ho avuto la chiarissima impressione di conoscerlo a memoria. Vai a sapere. Oppure quando ho sentito per la prima volta Tommy degli Who: ebbi la stessa impressione e in quel caso fu invece verificabilissima: effettivamente, la versione dell’ouverture di Tommy riarrangiata da Townshend per il film di Ken Russell nel 1974 fu a lungo la sigla di Spazio Libero - i Programmi dell’Accesso della RAI.

Aspetta, ma sto partendo per la tangente. Però dai, è inevitabile, ed è forse la ragione per cui non scrivo mai di musica. Se mi pagassero per farlo, probabilmente scriverei molto più fico e conciso, ma la stringatezza è qualcosa che si offre solo dietro compenso. Prendi il mio idolo scrittore di musica: Demented Burrocacao, però non cliccate ora, sennò smettete di leggere me che parlo di musica e invece leggete lui che è bravo, conciso e pagato (pagato: spero).

Siete ancora qua? Non siete andati a leggere Demented Burrocacao? Bene, perché ora si comincia.

Io uso l’iPod. Non si usa più, nel 2022. Probabilmente è per quel fatto dei dieci anni di decantazione. Se meriti usare Spotify ne parliamo tra qualche anno, o almeno quando la qualità audio di Spotify sarà un po’ meno aleatoria. Per ora io mi tengo i miei mp3 a 320Kbps, che tanto ho fatto tutti i blind test che volete e non sento nessuna differenza con i FLAC, tanto meno quelli strafichi con le frequenze che le sentono solo i cani o, presumibilmente, Neil Young. Io ho avuto dei fatti all’udito tanto tempo fa e ora come ora, a quarantasette-praticamente-quarantotto anni, ci sento benissimo ma non benerrimo.

Ho un iPod Touch di settima generazione da 128gb di capienza, un oggetto che nemmeno Apple sa bene perché l’abbia prodotto, perfino il player embeddato è squallido rispetto, per esempio, a quello del Touch 4s. Il 7 gen è semplicemente un iPhone senza la parte telefonica, ergo una zozzeria ibrida e monca. Ma io non voglio l’iPhone, non voglio che la musica stia dove stanno altre cose. Voglio un deviccio sempre pronto per la musica e basta, che mi mostri le copertine, che suoni bene per le mie orecchie medie. L’iPod 7gen, questo, lo fa.

Se posso, rippo, o acquisto gli MP3, pensate che ho addirittura degli MP3 pirata. Però buoni. Tutti a 320kbps. Li taggo a mano io mettendo la copertina grande così se ascolto su PC poi si vede bene. A volte metto anche il retro di copertina ecc ecc. Metto le unsynced lyrics. Ho un sistema tutto stronzo per far sì che gli album si possano vedere solo per ORDINE CRONOLOGICO, e che sia impossibile farlo per ORDINE ALFABETICO. Ma che è, le pagine gialle? Io voglio ascoltare la musica sulla base della bolla di sound che la contiene. Voglio scorrere e capire che sono negli anni Cinquanta, e solo Cinquanta. E poi magari vado avanti e oh! Sono circondato da copertine di dischi anni Settanta! È la mia fermata! Scendiamo.

Il gioco è semplice. Ho qui il mio iPod 128 GB. ora scrollo la mia catalogazione fino alla zona anni Settanta, e scelgo un po’ di dischi. Interi. I dischi si ascoltano interi, per lo meno quelli degli anni Settanta. A meno che non siano singoli particolari, chiaro. Ma qui andrò di ALBUM. Ne sceglierò più o meno a caso, cercando di privilegiare roba dalla Seconda Fascia di Ovvietà in giù. Ovvero non troverete tutta la roba classic rock ovvia che conoscete già - e che se non conoscete vuol dire che non dovevate conoscerla, a questo punto. Devo consigliarvi Who’s Next degli Who? Pink Moon di Nick Drake? Sticky Fingers degli Stones? Cristo raga, se devo arrivare io per dirvi di ascoltare Songs in the Key of Life di Stevie Wonder siete messi male male. Elton John. Zappa. I Led. I Queen. Gli Oliver Onions. I dischi solisti dei quattro BEATLES DE CRISTO. Insomma, dai, quella roba ve la smazzate per i fatti vostri. È ottima, ma l’ho ascoltata troppo tempo fa e per troppo tempo, non posso mettermi pure a parlare di quella. Parliamo di roba casuale anni Settanta sul mio iPod ma schivando le cose da schivare. Sbattiamo tutto in una playlist e quando supero le 24 ore di durata smetto. Più o meno. Qui linkerò uno o più brani da YT così vi fate un’idea.

Album: Lupin III - 71 ME Tracks

Artista: Takeo Yamashita [山下毅雄]

Anno: 1999

E cominciamo subito con un album del 1999, tanto per mandare in tilt gli ossessivo-compulsivi, me incluso.

La ragione è presto detta: la colonna sonora della prima serie di Lupin III del 1971 non fu pubblicata all’epoca. Sarcazzus perché, magari perché boh, ma che è sto sporco grooviglio di sesso, sangue e merda, ruvido, cattivo, selvatico come Lupin giacca verde. Solo che poi i master originali si sono persi, e arrivati a fine Nineties, dove il Giappone fa i conti con la sua incredibile tradizione di feconda appropriazione culturale, i master sono defunti e non si può fare una bella riedizione in CD. Takeo Yamashita raschia il fondo del barile e riedita i Music & Effect tapes (gli ME del titolo), che contengono però anche i bang della P38, i brooooom della 500 e i swiiitsh della Zantetzuken. Ogni tanto, perché con un lavoro da pazzi si è cercato di prendere spezzoni “puliti” da varie puntate, un frankendisc stupendo. E la verità è che ci stanno pure bene, gli SFX. La musica è jazzissima, chiassosa, sediziosa, poi di colpo puro silenzio, puro rumore, malinconia assoluta di Charlie Corsey che canta lontanissmo da daaa ddaa daaa, o fischia, o non so come cavolo faccia con quella voce a non essere diventato il più grande di tutti, cara grazia che appare nel primo Katamari Damacy almeno. La mia Lupin OST preferita di tutti i tempi, e ci dispiace per (Yuji) Ohno. Sul finale c’è Nice Guy Lupin che, impressa nella mia mente seienne, ha probabilmente forgiato tutto quello che sono, perlomeno la mia concezione dell’esistenza.

Da non confondere con Rebirth from '71 Original Score che è un riarrangiamento del figlio di Yamashita, dimenticabilissimo.

Album: Light as a Feather

Artista: Azymuth

Anno: 1979

Sempre per la serie “Visto in tivù”. Non ho mai sopportato l’incapacità delle persone nel dissociare un brano musicale da un programma cui ha fatto da sigla. Va bene da bambini, ma quando sei adulto non puoi sentire Jazz Carnival degli Azymuth e dire “aaaaah ma è la sigla di Mixer!” D’accordo, è inevitabile farlo, qualora siate abbastanza vecchi da capire di cosa io stia parlando. Ma dal secondo ascolto non è più possibile. Il groove danzereccio della fusion brasileira azymuthiana deve diventare per voi autosufficiente, come i piedi che ballano da soli. Non avete i piedi? Ballate con la testa. Non avete la testa? Non ci credo.

L’album è tuttobbello e non necessariamente tutto discofusion. Tipo Dona Olimpia che è mellowissimo ma anche inascoltabile in cuffia con un pan costante dei Fender Rhodes che ti domandi perché. Ma a parte quello, wow.

Album: North Star

Artista: Philip Glass

Anno: 1977

Ci sono dischi che diventano un po’ i cocchini di un certo gruppo di questa o quella intellighenzia musicale e allora finiscono con lo stare sulle palle a tutti gli altri. North Star è, parafrasando Battisti o meglio Mogol, troppo furbo per non essere sincero. Glass ci mette dentro tutto: l’elettronica colta, l’elettronica pop di Kingsley, l’dea di loop, Bach, e ci mette dentro anche tantissimo del Glass di Einstein on the Beach del 1975, però qui in forma estremamente più digeribile. Un’opera a prova di idiota che sorprende per ascoltabilità anche se non è che sia proprio proprio facilona. Ascoltato oggi, non solo è invecchiato bene, North Star, ma ha acquistato un che di destabilizzante che forse non aveva anni fa. Sarà che tutti stiamo cercando una stella polare, se non un centro di gravità permanecc ecc.

Album: La Mina

Artista: Mina

Anno: 1975

La Mina facilona, così come la mona facilina, non è di grande interesse. Non è vero, era solo per fare questo cambio vocalico scemo. Mina è sempre molto interessante, anche quando è noiosa, tipo negli anni Ottanta. Ma nei Settanta è all’apice assoluto, circondata e corteggiata dai migliori autori e parolieri (Albertelli, Paoli, Lauzi, Lo Vecchio, Malgioglio, l’intenso female gaze della Evangelisti, sì, tutti nello stesso disco).Con lei che si diverte come una pazza a smontare le convenzioni e le convinzioni degli italiani. Perché è lei il collante, è lei che rende, quando riesce o quando vuole, il long playing un’entità coesa, tanto più difficile spaziando fra tanti autori, per l’appunto. La Mina è esattamente questo: un album tutto bello compatto, moderno nel sound, umore femminile, sensuale e sessuale con l’eleganza e spregiudicatezza di una donna di trentacinque anni al suo ventiseiesimo disco. Potenza, controllo, tutto. Uappa è languido e come il suo titolo potrebbe non voler dire niente e invece dice tutto, Ti accetto come sei ha quell’arrangiamento killer orchestra più synth, più voce di Mina che ciao. Quasi come musica è un’azzardata e riuscita cover in ¾ di A Song for You di Leon Russell (con tanto di sorprese a livello armonico e melodico azzeccatissime). Racconto prende la già ottima C’est comme l’arc-en-ciel di Nicole Croisille trasformandone l’eccesso di sambitudine in una bossa sleazy dove Mina può solo spadroneggiare. Signora più che mai è tipo Baglioni solo in mano a Mina quindi tutto giusto, Immagina un concerto intercetta (nel 1975!) il nascente groove disco, L’importante è finire c’è ancora Patty Pravo che se magna le mani che non l’ha resa il suo cavallo di battaglia, ma insomma è quella del mazzo che probabilmente conoscete e sennò andate ed ascoltate e lode a Malgioglio che non è solo un paiazzo da reality. Poi c’è Come un uomo” he suona tutta francese e ha dietro Gabriel Yared che poi è diventato grande ma erano già gli anni Ottanta, Tu no che invece è il tipico brano pop discendente molto italiano e molto baglionistico ma qui ha grandezza da Procol Harum, e si chiude con Di già che sulla cassetta dei miei non c’era e l’ho scoperta solo trent’anni dopo. Come ti racconta le storie con la voce, Mina. Sentite che roba. Che spassosa.

Sì, non è che andrò canzone per canzone sempre, anzi, mai più, ma è un disco a me caro. E non l’avete mai ascoltato (probabilmente).

Album: The Music Power of Okinawa

Artista: Shoukichi Kina & Champloose [喜納昌吉&チャンプルーズ]

Anno: 1977

Il folk rock per me è tutto. O per lo meno è tanto. Soprattutto perché paese che vai, folk rock che trovi, e non ci si annoia mai. Prendi questo disco, per esempio. Appena parte Haisai Ojisan vuoi ballare a piedi scalzi sulla spiaggia di Okinawa dentro la foto di una vecchia cartolina. Ritmo contagioso. Il beat terzinato danzereccio che è quasi Puglia, ma è Okinawa, e quel shingaling che è quasi banjo ma è lo Shanshin, strumento tipico del sud del Giappone da cui deriva il più famoso shamisen. Ci si sente a casa senza capire il perché, ma forse è poi semplicemente il groove rock e questa voce che è tanto tanto classica del folk di Okinawa ma alla fine, essendo che è il 1977, chiudi gli occhi e ci senti il punk. E il mare. Disco spettacolare che poi non vorrete più ascoltare per tre mesi, ma ogni tre mesi va messo in playlist. Fate così: togliete per sempre i Modena City Ramblers e mettete questi.

Album: Odpotovanja

Artista: Tomaž Pengov

Anno: 1973

Chiaro, direte voi. Babich è di Trieste, ‘sta roba slovena l’avrà conosciuta per contiguità spaziale. Ma da questo incipit avete già capito che la realtà è un’altra. E se mi conoscete avete anche intuito la stupidità di associazioni mentali che mi ha portato a conoscere Tomaž Pengov, ovvero l’assonanza del cognome con Pengo, il coin-op Sega del 1981. Visto quel cognome, ho dovuto ascoltare il disco.

Mind blown.

Se questo disco, musicalmente parlando, l’avesse fatto De André, sarebbe nel Gotha italiano. Se l’avesse fatto Leonard Cohen, sarebbe nel Gotha americano. L’avesse fatto Nick Drakecceteraeccetera inglese. Invece l’ha fatto il liutaio Tomaž Pengov, ed è “solo” nel Gotha sloveno, ma lo è di brutto. Tanto che è il primo disco pubblicato indipendentemente della storia slovena.

Cercate il momento giusto. All’alba nella brughiera dove non si vede un casso, in treno la sera verso casa, a letto quando avete la febbre. Lasciatevi attraversare dalla voce, lasciate che la dodici corde riempia di raggi di luce il buio. Se poi vi appassionate, traducetevi i testi e scoprite che pure lì c’è una coerenza poetica granitica eppure flessuosa come i giunchi di Lubiana. Adoro i dischi scarni, e questo tra gli scarni l’adoro particolarmente, come certi demo tape austeri di Lennon.

Album: W.A. Mozart - Piano Sonatas vol. 3

Artista: Maria João Pires

Anno: 1974

[Premessa: ho scelto UN album di classica dei Settanta facendo il torto a tutti gli altri. Scusa Gould. Scusa Bach SCUSATE OH SCUSA 24 ORE VANNO VIA SUBITO non ci sono stati nemmeno gli Skiantos, se può consolarvi]

Più volte ho fallito nel tentare di far capire le ragioni del mio amore virginale per i cinque volumi che racchiudono tutte le sonate per pianoforte di Mozart nell’esecuzione di Maria João Pires per la Denon giapponese. Di fronte a queste esecuzioni della Pires io mi spoglio e torno bambino. Anzi, facciamo che prima torno bambino e poi mi spoglio. C’è un’assenza di ego pianistico mirabile. C’è una nostalgia romantica che tradisce certe frequentazioni chopiniane della Pires, ma senza lo scivolone in cui sono caduti troppi. C’è la totale mancanza del Mozart vitalista a tutti i costi, stereotipo tra gli stereotipi. C’è forse un po’ di rigore bachiano? C’è il fatto che la Pires registrò alla Iino Hall di Tokyo, aliena tra gli alieni? Boh. Non volendo spararvi tutti e cinque i volumi, mi limito a quello secondo me più pop - c’è quel pezzo là alla turca che avete sentito in tutte le salse, ma non in salsa di soia. E c’è il Rondo in la minore KV 511 che ho linkato qui sopra, perfetto. Tutto così perfetto che quando, un decennio e passa dopo, Maria João Pires riregistrò le sonate per la Deutsche Grammophon, il risultato non fu, a mio personalissimo avviso, paragonabile. Era “solo” una stupenda registrazione digitale di una grande pianista. Ma non si respira l’aria della Iino Hall. E il packaging fa cagare, mentre quello Denon ha ‘ste foto di Masami Hotta che ciao con Pires che ha trent’anni e ne mostra diciotto ed è trasfigurazione stessa della musica che suona, in perfetto equilibrio tra potenza e controllo.

Album: Ballata per Quattro Stagioni

Artista: Ivan Graziani

Anno: 1976

Ivan Graziani non è qui ancora del tutto convinto di essere il rock’n roll hero immortale che di fatto è. E ci sono infatti - mira el nome del disco - tante ballate, momenti psichedelici sublimi, echi battistiani (il che è abbastanza ovvio, visto anche l’apporto sonoro che Graziani offre a Lucio in quel periodo con Lucio che lo benedice, gli pubblica il disco con la sua label, gli presta il fotografo Cesar Monti e lo sprona a diventare Ivan Graziani). C’è la grande onda del progressive che si è acquietata e ha ormai accettato di convivere con il pop. La ballata titolare, La pazza sul fiume, Come, la mirabile Donna della terra che - brividi assurdi - scopro solo adesso essere composta insieme a Claudio Maioli, quello di Pat e di Ken il Guerriero. Queste variegate eppur coerenti-tra-loro ballate che profumano di Appennino all’alba scintillano ancora di più vicine a due gemme grezze rock, l’uno-due che in effetti aprirà all’anima più bollente del nostro. Trench è uno strumentale che dice tutto sulla poetica chitarristica di Graziani, e Il campo della fiera fa un uso di ottoni, chitarre e synth appena accennato che mi ha letteralmente paralizzato la prima volta che l’ho sentito. Tipo John Peel che ascolta alla radio Teenage Kicks degli Undertones e quasi finisce in un fosso con la macchina. E tutto questo con le parole di diavolo di narratore che è Graziani, che non ti fanno mai stare seduto con la testa.

Album: Solomon’s Seal

Artista: Pentangle

Anno: 1972

OK -avete capito che ho una smodata passione per il folk ibridato, probabilmente derivante da un singolo ascolto della OST di Ghouls’n Ghosts su Amiga di Tim Follin, che mi ha fleshato per sempre. Poi ho imparato a apprezzare il folk più folkoso, e potrei placidamente tirarvi in faccia The Lady and the Unicorn di John Renbourn, legit nella lista perché 1970, ma no: andiamo invece nell’oscurità, nel folk jazzy, bluesy e spesso malinconico dei Pentangle. Dove c’è Renbourn, ma c’è anche Bert Jansch eroe mio e di Jimmy Page, e Jacqui McShee che canta e Danny Thompson che contrabbassa e Terry Cox che percuote e che meraviglia. Saudade composta british, il gruppo che sta per sciogliersi, voglia di un bicchiere di qualcosa e di una sigaretta perché sai che fa male e allora pensi alla morte, ma tutto sempre dall’alto, senza spasmi, come se la tua anima potesse staccarsi dal corpo insieme al fumo che sbuffi fuori dalla bocca. Poi il sorriso di un ricordo dolce, una vecchia filastrocca, una cantilena popolare, il calore di un gruppo di amici che invade la stanza con degli strumenti e sono bravissimi. Disco da rotolarci dentro senza nemmeno star a pensare a questa o quella canzone (anche se No Love is Sorrow è effettivamente un diamante appoggiato in un cesto di luce).

Album: Pink Flag

Artist: Wire

Anno: 1977

Questo l’ho messo solo perché me l’ha detto Magistretti. No dai, non solo per quello. È una scarica elettrica chitarristica. Poesie fulminee che durano quanto dovrebbero. E non si dilungano perché tanto sapevano in cuor loro che sarebbero diventate ispirazione per millemila band. In fondo anyone can play guitar. Meglio. Peggio. Ma così no, perdìo, così no. Non fino a quel momento. Poi i Wire sarebbero andati altrove, lasciando però questa ventina di canzoni (per un disco singolo!) come un prima e un dopo per tanti. Sul ponte sventola bandiera rosa.

Album: Kimono My House

Artista: Sparks

Anno: 1977

Una cosa adorabile dei critici musicali è che si inventano etichette contorte e sperabilmente efficaci. Tipo ti metti ad ascoltare Kimono My House e partiresti dicendo, di This Town Ain’t Big Enough for Both of Us che sono “Dei Queen americani che ce l’hanno fatta differentemente”, solo che poi passi a Amateur Hour e dovresti dire che sono “il matrimonio impuro tra gli Who di Pictures of Lily e il Bowie modernista in salsa glam”, ma poi parte Falling in Love with Myself Again e stai già scrivendo “Se Syd Barrett avesse incontrato Brahms a cena dagli Yes più beatlesiani” ma poi ti interrompi, mandi tutto a fanculo e dai le dimissioni. Ironicamente, l’assoluta ecletticità degli Sparks (all’interno di Kimono My House, senza nemmeno considerare il folle arco della loro carriera) restituisce una visione perfettamente coerente della libertà stilistica degli anni Settanta. Vera? Presunta? Temporanea? Boh, che figa che è Here in Heaven.

Album: Atom Earth Mother

Artista: Pink Floyd

Anno: 1970

Non c’è niente dei Floyd anni Settanta che non sia mega-noto. Ma questo è il primo CD che io abbia comprato in vita mia e ce lo metto. Anche solo per osannare ancora una volta la copertina Hipgnosis! Avevo già copiato su cassetta il tritticone Dark Side/Wish/Animals, quindi che dovevo fare? comprare su CD un disco che avevo già su cassetta? Tsk! E che bella sorpresa, Atom Earth Mother. Non sapevo che per tanti critici fosse un’opera confusa, senza un’identità precisa. Per me era un’opera completa, diversificata tra l’ambizione assoluta del lato A e la cazzimma psichedelica british del lato B. Cioè, Summer ‘68 è bella in un modo che non sembra nemmeno un pezzo dei Floyd! Inoltre tutto ciò aveva una qualità minteriana spaventosa, quella celebrazione bucolica storta totale. Lavoravo ai miei progetti con lo Shoot’em Up Construction Kit per Commodore 64 e ascoltavo a ripetizione Atom Earth Mother. Non so se ero felice, certamente ero al sicuro.

Album: Cobalt Hour

Artista: Yumi Arai [コバルト・アワー]

Anno: 1975

Che bello sarebbe un mondo in cui le barriere culturali non limitassero geni assoluti al ruolo di “local hero”. Yumi Arai, o Yumin o Yumi Matsutoya che dir si voglia, non ha niente da invidiare a Carole King, e ha continuato a comporre e interpretare musica sublime pure molto più a lungo. Una voce femminile unica nel panorama nipponico, con una serie di hit che sayonara proprio, un parterre di musicisti da cadere svenuti parterre. Era vero nei primi due dischi Hikouki Goumo e Misslim, ed è tanto più vero nel terzo, dove troviamo, tra gli altri, Masataka Matsutoya (futuro marito) e Tatsuro Yamashita agli arrangiamenti, Shigeru Suzuki alla chitarra e al basso un Haruomi Hosono in forma più olimpica del solito - se possibile. Le canzoni sono una più bella dell’altra e questo è il disco della giovinezza per un’intera generazione di giapponesi. Tra cui Hayao Miyazaki, visto che Rouge no Dengon di Kiki’s Delivery Service viene proprio da questo disco, con quell’impeccabile doo-wop finto anni Cinquanta vero anni Settanta. Copertina orribile.

Album: Who Came First

Artista: Pete Townshend

Anno: 1972

“Chi è venuto prima” nel senso dell’uovo o la gallina, ma anche “Gli Who sono venuti prima”. Pete Townshend è uno dei miei eroi assoluti, primo tra i primi, ultimo tra gli ultimi, contraddittorio, triste, fiamma di tuono, solo, guitar hero infinito, poeta. Questo disco esce l’anno dopo il migliore disco rock della storia e Townshend raccoglie i cocci di se stesso e di Lifehouse, la rock opera che non riuscì a realizzare che lo portò all’esaurimento nervoso. Con vari demo dei pezzi abortiti di Who’s Next più altre robe assortite che spaziano da canzoni che non sarebbero dovute uscire dalla cameretta a inni per guru dimenticati, Townshend mi fulmina adolescente per il coraggio, l’onestà, la vulnerabilità. E mi insegna una delle più audaci perversioni della musica: un disco non deve neppure suonare bene, per piacere. La roba può essere registrata in casa, tutti gli strumenti suonati da te (soprattutto se sei Townshend), e va benissimo così. La chitarra suona sottile? La batteria sembra quella che vendeva Mastrota? No problem, anzi, è cifra stilistica, e una certa casualità del risultato ne è ulteriormente parte. Certo: devi avere canzoni molto buone, perché il gioco del ridurre all’osso funzioni. Qui funziona e, senza dover servire il signature sound degli Who, Townshend può spaziare davvero come je pare.

Album: Message Personnel

Artista: Françoise Hardy

Anno: 1973

L’inizio degli anni Settanta è multidirezionale, ma sempre radicale. Chi va verso il durissimo, chi va verso il celebrale prog, chi verso l’extreme mellow. Questo è un disco che va verso l’extreme mellow, con la piacevole aggravante della lingua francese. La lingua di Françoise Hardy. Canzoni mellow ma con spine dorsali lennoniane, tayloriane, kinghiane, paulsimoniane financo. Cantautrice impeccabile, semplice e irriproducibile. Qualche momento ameno quasi country, e per il resto sotto le coperte e fare l’amore come persone innamorate e mature per ore ed ore mentre fuori gli anni si fanno di piombo ma sticazzi. Finale sconcertante con trittico intimo di fuoco: Chanson floue prepara il terreno, Message personnel butta la benza, Je suis moi incendia, ma sempre in punta dei piedi, intimo appunto, personale.

Album: Sea Flight

Artist*: Izumi Kobayashi (小林泉美) and Flying Mimi Band

Anno: 1978

Potrei metterla sul professionale e spiegare quanto io ami Kobayashi per l’apporto come autrice, tastierista e a volte cantante alla serie Urusei Yatsura. E di come questo disco anticipi molte delle sue scelte ritimico-melodiche.successive, risultando nel contempo legato a matrici funk/bossa/samba/fusion estremamente presenti, quasi passatiste, non certo il futuro pop di Mimi. Ma la verità è che questo disco lo tengo sull’iPod perché la copertina mi turba eroticamente. Oh, è così. Suono il piano. Guardo la profferta di musica e amore di questa foto e reagisco mentalmente con la gif di Robert Redford

Album: Back To Front

Artista:Gilbert O’ Sullivan

Anno: 1972

Sono il più grande fan italiano di Gilbert O’ Sullivan dal giorno in cui vidi l’episodio 24 di Maison Ikkoku che aveva come sigle Alone Again e Get Down. Ci volle un anno perché scoprissi il suo nome e altri due perché trovassi i suoi CD. È impossibile condensare qui la grandezza di quest’uomo, in grado nei Settanta di rivaleggiare con Elton e Macca come re del pop inglese, dischi alla mano. Ho scelto questo un po’ perché dietro alla copertina testosteronica per caso (ma è una storia troppo lunga, scusate) c’è sono Claire, Ooh wakka Do eccetera e ovviamente Alone Again anche se a dirla tutta solo nella versione CD remastered ma sticazzi. O’ Sullivan è un uomo di album interi, b-side oscuri e bellissimi (tipo Save It proposto sempre nel CD above), arrangiamenti iperclassici e robe strambe a caso, insomma è UK pop at its best. Lo amo. Fondamentali tutti gli album tra il 1971 e il 1992 almeno.

Album: Judee Sill

Artista: Judee sill

Anno: 1971

Conosciuto in tempi recenti grazie a una persona di nome Ilya Muromets (suppongo non quello, ma vai a sapere), questo disco e Judee Sill in generale mi hanno stravolto. Ero in metro che ascoltavo distrattamente, ma a un certo punto sento Jesus was a Crossmaker e ho uno svarione, tutto il sangue va alle orecchie per non perdere nemmeno una frazione di questa roba. Songwriting originalissimo, vi direi un Jim Croce + Bach donna ma non c’entra assolutamente niente, se non la croce perché Judee Sill fu una rapinatrice con, a un certo punto, crisi mistica, poi integralismo religioso, poi Geffen la manda a quel paese per, apparentemente, le sue posizioni omofobe, a lei che era apertamente bisessuale, poi lei (un po’ poi, non subito) si uccide. Certo che i Settanta sono stati strani, pieni di libertà (o meglio di una specie di esperimento collettivo chiamato libertà) e dolore. Riposi in pace, Judee Sill, che ci ha lasciato poche canzoni, tutte stupende, tutte animate da uno spirito unico.

Album: City Connection

Artista: Terumasa Hino [日野 皓正]

Anno: 1979

Lo fate anche voi di pescare dischi totalmente alla cazzus, per motivi futili, scoprendo poi che sono disconi? Io ho adocchiato questo disco per il titolo, omonimo del mio videogame feticcio del 1985. City Connection, appunto. E l’ho messo su e bam, tutto quello che mi piace, ovvero il Giappone che gioca a fare l’America jazz/funk/fusion e si inventa una sua versione iperrealistica, sublime. Qui c’è un’attenzione al calore che i coevi Casiopea non hanno, ben più digitali, mentre qui è tutto un tripudio di verità sonora big band - e la mirabile tromba di Hino in primo piano. Ritmiche che sanno farsi ora disco, ora mellowwwwissime impediscono la rottura di palles. Augusto Martelli ha campato su ‘sta roba per i dieci anni successivi.

Album: Cluster & Eno

Artista: Cluster & Eno

Anno: 197

Guardi la tua lista, guardi tutti i dischi di Eno sull’iPod, guardi quelli dei Can, il krautrock, l’ambient, pensi alle porte del cosmo che stanno su in Germania e dici: e mo’ come scelgo? Scelta provocatoria, quindi, ma metti che non lo conosci, be’, gran disco e grande (prima) collaborazione tra Brian Eno e i tedeschi Cluster. Un’eccellente “ambient for dummies”, non ancora del tutto astratta, non ancora del tutto stracciamaroni.

Album: Carpenters

Artista: Carpenters

Anno: 1971

Fa ridere - o piangere - di DOVER mettere i Carpenters qui perché non li avete mai debitamente calcolati. Durissima la scelta dell’album - avrei potuto mettere Close to You del ‘70, ma anche le uscite del ‘72 e del ‘73, piene d’oro. Ma qui c’è l’infinite sadness di Karen Carpenter perfettamente bilanciata in brani come Let Me Be the One o Hideaway o Rainy Days and Mondays. E che, Superstar niente?

Ah, Karen, foriera di una tristezza che non ammazza ma crogiola. Noi. Purtroppo lei invece proprio ne è morta. Una delle voci degli anni Settanta più Settanta che siano esistite. Ah sì, e poi c’è anche il fratello che canta benissimo, ma sempre un po’ con un tiro da mona, che è un contraltare bellissimo (es. Saturday o Druscilla Penny). Amateli.

Album: Almoirama

Artista: Paco de Lucia

Anno: 1976

Io non capisco una mazza di flamenco. E faccio anche fatica ad approcciarmi al flamenco cantato dai cantaores, so che Camaron de la Isla è divinità in patria ma per me vale quanto i Gipsy Kings. Però il flamenco suonato da Paco de Lucia arriva per direttissima al centro del piacere. Non ti fa scimmiottare “ooooo-lé!” a ogni pausa dello strumming, problema tutto italiano derivante dalla famosa scena al ristorante spagnolo di Vieni avanti, cretino, probabilmente. Poi a inizio anni Ottanta De Lucia va oltre, e incontra la fusion, ma già qui si sente che ha voglia di contaminazione. Come il Dylan elettrico al Newport Folk Festival, De Lucia che mette il basso elettrico sotto Rio Ancho è sacrilego. E, come Dylan, Paco de Lucia lo fa perché può. Perché lui è lui, e voi non siete un Paco.

Album: Pacific

Artista: Hosono/Suzuki/Yamashita et al.

Anno: 1978

Un disco-crocevia pazzesco, di per sé pianificato in maniera poco velleitaria - roba easy listening tanto per fare cassetta per produzioni più ambiziose. Ma se i nomi coinvolti sono questi, come poteva finire lì? Shigeru Suzuki e Haruomi Hosono, compagni di marachelle sonore rock e exotica con gli Happy End. Tatsuro Yamashita, poi artefice del suono citypop del capolavoro di Mariya Takeuchi, Plastic Love. Ryuichi Sakamoto e Yukihiro Takahashi, già in combutta con Hosono, tanto da decidere di continuare insieme a lui fondando la Yellow Magic Orchestra. Il risultato è molto, molto più della muzak easy listening che era lecito aspettarsi. Electro, synth-pop, exotica, jazz, funk, fusion… c’è dentro tutto (inclusa la migliore versione di Cosmic surfin”, poi apparsa stravolta sul primo della YMO). Disco post-hipster per eccellenza, tanto da esser stato ristampato illegalmente su vinile, tale era la richiesta. Ora esiste la ristampa remaster legit ed è una goduria.

Album: American Poet (Live)

Artista: Lou Reed

Anno: 2001

Il 26 dicembre 1972 Lou e band si prodigano in un live alla Calderone Concert Hall, Hempstead, New York. Viene bootlegato a sangue per trent’anni (tipo io ce l’avevo in una cassetta bootleg presa in Spagna a Calella de Mar nel 1993 e intitolata EL REY DEL GAY ROCK, wtf). Transformer è uscito quasi due mesi prima e Lou vuole far capire a un mondo che c’è vita dopo i Velvet (Underground). Il live è ruspante, intimo, molto diverso dall’approccio hard/glam di Rock’n Roll Animal del 1974. Rockeggia, eh, ma senza menarsela. Ereticamente preferisco questo. Con una scaletta che spara fuori White Light/White Heat, Vicious, I'm Waiting for the Man, Walk It Talk It, Sweet Jane (versione lunga), Heroin, Satellite of Love, Walk on the Wild Side, I'm So Free, Berlin (versione lunga, stupenda, dal primo disco solista) e Rock & Roll, davvero non so cosa aspettate.

Album: Peace Lagoon

Artista: Singh Kaur

Anno: 1979

Ho pensato fino all’ultimo se includere questo album o meno. È legato intimamente ad alcune esperienze di vita e di meditazione molto difficili da condividere. Ho visto gente ridermi in faccia per questo disco, ed è comprensibilissimo perché, come tutta la roba spirituale, o ti poni nella condizione giusta o si scatena una repulsività. New Age! Fricchettoni straight-edge! Americani che cantano in gurmukhi celebrando il potere del kundalini yoga! Sarcasmo e ironia sono reazioni assolutamente comprensibili all’ascolto di questo disco. Tuttavia, provando a proiettarsi nel punto di vista di Singh Kaur, cioè sforzandosi di capire le emozioni, se non le ragioni, della sua devozione, di colpo questo disco può smettere di sembrare una barzelletta. Sono ancora perso dentro la sua voce, a domandarmi come poaa esistere una simile devozione. La si sente nel timbro. Io non ci capisco un granché di devozione, di spiritualità eccetera, e se mi dici che farmi la doccia fredda fa bene allo spirito penso che sia una cazzata. Ma mantengo viva la capacità di mettermi nei panni altrui. Mettersi nei panni musicali di Singh Kaur è una fra le sfide più grandi, e credo questo sia in assoluto uno fra i dischi che ho ascoltato di più negli ultimi quindici anni. Anche perché quando non riesci a prendere sonno è potentissimo. Ti fa addormentare di botto. Uno dice “e sarebbe una critica positiva a un disco?” Assolutamente sì. Perché mica quando dormi non ascolti. Anzi.

Album: Wunderlich Pops 3

Artista: Klaus Wunderlich

Anno: 1975

Una bionda teutonica con sguardo languido, abito da sera nero scollatissimo, una coppa di champagne in mano, luce calda che sta per prendere fuoco la pellicola. È già tutto giusto-sbagliato per la cover di un album: chiaramente Seventies, e poi forse quella non è proprio una coppa di champagne, e forse quello dentro non è champagne, citofonare Moe Nellow. Certo, è un disco easy che più easy non si può, un medley costante di musica di successo del periodo, con qualche evergreen buttato a muzzo, l’importante è annullare il ragionamento, ventotto le canzoni toccate in due facciate viniliche. Insomma lounge, easy listening e anche tanto schlager tedesco, con tutti gli organetti possibili e tantissimo moog, robe che Perrey e Kingsley facevano cinque anni prima, ma pazienza se poi oh, il wall of sound è sensatissimo, e c’è pure il brano che poi su Commodore 64, in mano a Mark Cooksey, sarebbe diventato parte della OST di Ghosts’n Goblins. (Il brano è Dangerous Dreams).

Album: Quatre

Artista: Raije [ラジ]

Anno: 1979

Poteva solo essere un altro bel disco funk-jazz-fusion proto city-pop giapponese del 1979, ma no, ecco che ci sono dentro Sakamoto, Hosono, Takahashi e Hideki Matsutake che si supera coi suoni elettronici. Quatre e Moonlight li ascolterei in loop per sempre e il resto del disco non è da meno, grande coerenza di sound, anche nei momenti più tranquilli e “classici”. Raije trova con naturalezza un timbro impeccabile per questa sinfonia di analogico e digitale semplicemente perfetta.

Album: Surf’s Up

Artista: Beach Boys

Anno: 1971

Surf’s up in slang Sixties: che belle onde, mare ideale per surfare! Surf’s Up di questo disco: il surf è andato ammerda, siamo dei bandoleri stanchi che stanno annegando nei mulini a vento.

Come sono arrivati così stanchi e in macerie i Beach Boys a inizio anni Settanta? Non rispondetemi, è Storia, lo sappiamo. Ma soprattutto: e meno male. Meno male perché da questo sacrificio nascono dischi come questo, triste, tristissimo, che a confronto Pet Sounds sembra la macarena. Butti dentro un paio di scarti dell’abortito Smile, altri avanzumi scritti da Brian Wilson esaurito che manco Mike Love riesce a tirarli su, ci metti dentro un sacco di Carl Wilson che tutto ciò che tocca con la voce è oro, et voilà, il capolavoro storto è servito. Don’t Go Near The Water. Disney Girls (1957). Surf’s Up. E ovviamente ‘Till I Die che per sempre ascoltandola nel momento giusto vi fa vedere cosa avete davvero in fondo in fondo. ‘Till I Die. Andate.

Album: Zuma

Artista: Neil Young

Anno: 1975

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Ma è possibile stare ancora qui a discutere nel 2022 sul fatto che Zuma è CHIARAMENTE il miglior disco anni Settanta di Neil Young? Dai, su, Harvest je spiccia casa. Veramente. Sì, Rust Never Sleeps, va bene. Ma Zuma, come ALBUM, se li magna tutti. TUTTI. Ascoltatelo.

Album: Gli dei se ne vanno, gli arrabbiati restano!

Artista: Area

Anno: 1978

Ho sempre trovato gli Area molto divertenti, per nulla intimidatori, a differenza di tanto altro progressive/jazz/incatalogabile anni Settanta. Loro e i New Trolls. Ovviamente gli Area cercavano - e trovavano - una comunicazione politica e sonica molto più ambiziosa, internazionalistica. Idee, testi e tradizioni, traduzioni e tradimenti della musica mondiale, perfettamente vissuti nel loro presente. Quindi nel 1978 di Gli dei se ne vanno, gli arrabbiati restano! è tutto un florilegio di jazz funk, di mahavishnu, di synth buffi. Si balla, si ride (a volte con amarezza, Vodka e Cola per esempio) si celebra e si fa a pezzi il Novecento, con la voce musica di Demetrio Stratos che danza tipo Pina Bausch su partiture arzigogolate ma mai in un esercizio fine a se stesso.

Poi, dopo questo incredibile disco, il dio Stratos in effetti se ne è tornato sull’Olimpo. Gli arrabbiati non sono rimasti nemmeno loro - o meglio, sono cambiati. Un paio di anni dopo qualcuno lo diceva, che le barricate in piazza le fai per conto della borghesia, che crea falsi miti di progresso. E fosse stato quello il peggio. Non pensiamoci: per quanto strano possa suonare, facciamo un po’ di escapismo con gli Area.

Album: Casiopea

Artista: Casiopea

Anno:1979

Nella mia dittatura ideale, quando accendi la radio senti per forza uno dei brani di questo disco dei Casiopea. La radio dovrebbe trasmettere solo musica che riesce allo stesso tempo a farti godere e a farti crescere come ascoltatore. Come se la testa cominciasse a muoversi e andare da qualche altra parte. In effetti, tra i Casiopea e i T-Square, è tutto un volare altissimo. Ho sempre trovato strano che sia invece diventata la musica tipicamente associata alle gare automobilistiche, una roba estremamente rumorosa dove si gira sempre in tondo. Ma non mi piace la Formula 1. Se un po’ ogni tanto mi è piaciuta è merito di Time Limit, e dei suoi figli, da Round in D Minor di Martelli a Moon over the Castle di Ando, probabilmente. Ma solo nei videogame.

Album: Red Gold & Green

Artista: Ken Boothe

Anno: 1973

Che roba strana la popolarità mainstream. Il mainstream è a slot. Non puoi avere l’attenzione del mainstream se c’è qualcuno che anche soltanto sembra troppo simile a te. Anche se è una similitudine fittizia, basata sul pregiudizio. Terence Trent D’Arby diceva, con uno dei suoi caustici parossisimi, che nel mainstream c’è spazio per un nero alla volta. Quando c’è MJ, non può esserci Prince. Quando c’è Lenny Kravitz, Terence deve farsi da parte e così via. Nemmeno così iperbolico. Ancora più amara diventa la parabola di un cantante associato a un genere: Bob Marley è, per il mainstream, il reggae. Per fortuna che poi gli appassionati se lo vanno a squarciare, ‘sto ridicolo concetto del mainstream, e apriti cielo musicale! Ken Boothe è un gigante, un interprete di una profondità da brivido, una voce che trasmette devozione, onestà interpretativa, intensità, fattanza. Uno che avrebbe potuto cantare qualsiasi cosa, con quel groove così perfettamente imperfetto. Ken ha deciso di gravitare per tutta la vita attorno al roots reggae. Peccato che gli slot “nero” e “reggae” fossero già occupati.

Album: Sulle Corde di Aries

Artista: Battiato

Anno: 1973

Oh, spesso non mi si crede quando dico che questo è il mio album preferito di Battiato. Ma se parliamo di ALBUM nella sua interezza, non ho dubbio alcuno. L’avant-garde può essere comprensibile, godibile, arrivare emotivamente non come gusto acquisito. Questo album, su di me, funziona esattamente così. Mi porta in posti probabilmente molto simili a quelli dove Battiato immaginava di portarci. Ne ho avuto riprova poi ritrovandomi nelle sue terre d’origine. Sono anche convinto di averlo ascoltato nella pancia di mia madre. Autosuggestione? Perché no, se tutto comunque nasce dalle sequenze e frequenze di questo disco. Provatelo tipo con uno stereo, con delle casse, fate vibrare l’aria come fossero le corde di Aries.

Album: Sun Bear Concerts: Kyoto

Artista: Keith Jarrett

Anno: 1976

Cosa c’è dopo Colonia? C’è tutto.

E si potrebbe chiudere qui. Però sì, lasciatemi spiegare. Jarrett era reduce dal successo del Köln Concert, che per lui era abbastanza uno sconcert, perché il pianoforte non era quello richiesto e faceva schifo, quindi si è inventato una roba che non era quello che aveva in mente, che di fatto si è trasformata nel suo disco solista di maggior successo. Questa cosa deve aver fatto smascellare parecchio il nostro, che si è detto: ma se io con un piano di m- riesco a ottenere una cosa del genere, vuol dire che posso fare qualsiasi cosa MWAAHAHHAHAH [drammatizzazione potenzialmente non conforme ai fatti realmente accaduti]. Quindi si prepara a un tour giapponese di due settimane per cinque concerti. Il format è quello: lui, da solo, sul palco, a improvvisare la qualunque al piano. Però stavolta il piano(forte) è buono, il pubblico giapponese è in devota ammirazione e in più siamo in Giappone, un luogo che per uno spiritualone come Jarrett non può che avere una risonanza particolare. Succede veramente di tutto, in quelle cinque date, dal jazz pop più amichevole al caos free jazz alla ripetizione di una nota per dieci minuti. Un monumento alla concezione della musica anni Settanta. Il primo concerto, quello alla Kaikan Hall di Tokyo, è l’inizio ideale, e quello ho scelto di proporvi. Anche perché tutto non potevo metterlo: sei ore e mezza su ventiquattro di scaletta sarebbe stato barare duro. Tuttavia, di quelle sei ore e mezza non butterei niente. Se vi è piaciuto The Köln Concert, preparatevi per il viaggio improvvisativo jazz della vita. Prima fermata: Kyoto, si scende. Be’, si sale, vista l’elevazione spirituale cui state per sottoporvi. Sovrapporvi. Insomma, si va su.

Album: Solid State Survivor

Artist*: Yellow Magic Orchestra

Anno:1979

In buona sostanza, questo è il mio disco preferito dei Settanta. Dovrei dire così, ma non è veramente un disco dei Settanta: è lo spartiacque tra Settanta e Ottanta, almeno per il Giappone. Ovviamente dentro ci trovate Moroder, i Kraftwerk, un po’ di Tomita (di cui Hideki Matsutake, il sound producer, era stato allievo). E pure i Devo, che guarda caso avevano suonato in Giappone proprio nel maggio di quell’anno (SSS esce a novembre) - la qui presente Day Tripper gioca a fare a pezzi i Beatles esattamente come Satisfaction dei Devo faceva a pezzi gli Stones. Insomma ci trovate tutta la roba superfica techno di quegli anni, che Ryuichi Sakamoto, Haruomi Hosono e Yukihiro Takahashi fanno loro, digeriscono, rielaborano e riscodellano creando uno fra i dischi più importanti nella storia della musica. Divertentissimo, colto, accessibilissimo, raffinatissimo, suonato e registrato come mai prima di allora. Sono un tipo monotono, per me vince la musica che gestisce potenza e controllo con consapevolezza, più quel fattore misterioso e incontrollabile che fa succedere le cose nel modo giusto, e che già gli antichi chiamavano culo. Per convincervi che potenza, controllo, consapevolezza e culo convivono alla perfezione in SSS, vi basta ascoltarlo. Dal vocodato grido TO-KY-O! che costituisce l’incipit di Technopolis, agli echi okinawani che incontrano i fraseggi disco-ragtime di Absolute Ego Dance. Dalla perfezione pop di Rydeen (seee, è quella di Bis de Mike Bongiorno) all’atmosfera 100% sakamotiana di Castalia. E poi c’è l’irresistibile Behind the Mask, che non a caso solo per un pelo non è finita in Thriller di Michael Jackson (grazie alla passione di Greg Phillinganes - tutta la scena black di Detroit andava matta per gli YMO!). Dopo la già elogiata Day Tripper c’è Insomnia, altro episodio pensivo, orgogliosamente “da album”, e poi si conclude con la title track, che è uno sguardo su quel techno vocal pop che sarebbe stato il futuro della Yellow Magic Orchestra. Il disco ideale per seppellire definitivamente l’idea reazionaria che elettronica, synth e tecnologia assortita fossero la morte del pop. Welcome new wave, hip-hop, synthpop, citypop - welcome ‘80s.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata agli anni Settanta, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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