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Hunger Games e l'epopea survival

Hunger Games e l'epopea survival

Questo articolo fa parte di una "cover story" che abbiamo voluto dedicare all'uscita mondiale di The Hunger Games, film dal notevole successo ispirato a una serie di libri dell'americana Suzanne Collins. Cinque articoli per cinque giorni, in cui vi racconteremo tutti gli aspetti di quello che è già un nuovo fenomeno mondiale. In attesa che il film arrivi in Italia il primo maggio.

A ben vedere, The Hunger Games non ha inventato nulla. La spettacolarizzazione della morte, il pubblico adorante, la lotta tra un singolo e nemici più o meno bestiali e lo spettacolo dal vivo tutto sangue e sopravvivenza hanno segnato l'immaginario dell'umanità fin dai tempi dell'antica Roma. Allora gladiatori, guerrieri e martiri cristiani erano sbattuti in un'arena a combattere e a morire solo per stuzzicare il gusto del pubblico, che è poi quello che succederà in decine di film, libri e videogiochi da quarant'anni a questa parte. A prima vista The Hunger Games sembrerebbe omaggiare l'epoca gladiatoria solo con lo spunto di partenza (intrattenere il pubblico con la morte in diretta), ma la disperata lotta per la sopravvivenza di Katniss Everdeen e Peeta Mellark non è altro che un mix tra le antiche arene imperiali, la tradizione del futuro distopico-dittatoriale tanto cara a molta letteratura da Orwell a Dick e la più recente mania del "grande occhio" dei reality show.

Forse è anche per questo insieme di ispirazioni tra antico, contemporaneo e futuristico che la saga di Suzanne Collins ha colpito così nel segno giovani e meno giovani. Il paragone più immediato per chi ha già letto il libro o visto il film di Gary Ross, nelle sale italiane dal primo maggio, è quello con The Running Man (L'implacabile), il romanzo di Stephen King/Richard Bachman pubblicato nel 1982 e portato su grande schermo cinque anni dopo da Paul Michael Glaser. Arnold Schwarzenegger, novello gladiatore in un futuro in cui gli USA sono diventati un Paese autoritario e totalitario, viene catturato dalle autorità, ingiustamente condannato e scaraventato sul set di uno spettacolo televisivo. Qui, continuamente ripreso dalle telecamere e visto da milioni di telespettatori, deve sopravvivere a diverse prove e sconfiggere altrettanti nemici (proprio come un classico leveling videoludico) in un mix di azione, violenza e critica socio-mediatica meno pregnante delle pagine di King ma di innegabile impatto, tanto da farne oggi un piccolo cult degli anni '80. Inevitabile (ma in fondo trascurabile) il tie-in di due anni dopo sotto forma di action a scorrimento orizzontale, mentre il valido Smash TV del 1990, seppur non ufficialmente legato a The Running Man, ne riprende lo sfondo tematico e la concezione a livelli via via più impegnativi.

Anche Rollerball di Norman Jewison, del 1975 (evitate il fiacco remake del 2002 di John McTiernan), fornisce un valido spaccato delle tematiche care a The Hunger Games. Futuro poco roseo, un sistema oppressivo e corrotto, pubblico in visibilio che reclama sangue e scontri, uno sport violento ed estremo con cui intrattenere la massa (la pista del Rollerball è circolare proprio come le arene romane), morte in diretta. Lo stesso anno Paul Bartel dirige Death Race 2000 (Anno 2000 - La corsa della morte), film low budget di produzione cormaniana dove il solito futuro distopico e simil fascista fa da sfondo a una gara automobilistica coast to coast in cui tutto è lecito, compresa l'uccisione indiscriminata di passanti e pedoni giusto per attizzare un po' i bassi istinti del popolino oppresso. Nel film di Bartel non manca la TV come polo di attrazione del pubblico, elemento ripreso con maggior forza (anche visiva) dal prequel del 2008 di Paul W. S. Anderson, dove però, al posto delle highway americane, le spettacolari gare si svolgono nella prigione-circuito di Terminal Island, in cui viene a mancare proprio quella gratuità della morte del film precedente. Proprio al cult-movie di Bartel si rifà Carmageddon, il racing game passato alla storia più per le sue beghe legali e censorie che altro; il gioco di Stainless Games omaggia Death Race 2000 sia a livello narrativo, sia nel design delle auto e nell'incremento del punteggio ottenibile investendo civili innocenti a 200 km all'ora (cosa non si fa per un po' di audience).

La spinta catodica da grande fratello è ancora più pronunciata nell'interessante Contenders serie 7, piccolo film indipendente diretto nel 2001 da Daniel Minahan dove in un reality show estremo sei partecipanti armati devono sopravvivere uccidendosi tra loro, il tutto seguito costantemente dalle telecamere e da un pubblico televisivo che tifa per i vari concorrenti. Non la TV ma il "cinema" è invece lo sfondo su cui si muovono i due episodi di Manhunt, la creazione iperviolenta e malata di Rockstar Games dove la sopravvivenza si unisce al puro gusto di uccidere nei modi più atroci e fantasiosi, per poi montare uno snuff movie da distribuire nel mercato clandestino.

E che dire di Gamer, imperfetta ma originale rivisitazione di The Running Man in chiave MMOG? Il film di Mark Neveldine e Brian Taylor con Gerard Butler e Michael C. Hall ambienta in un futuro tutto tecnologia, "second life" e alienazione internettiana una vicenda che non sarebbe dispiaciuta a Philip K. Dick. Nel videogame Slayers, uno sparatutto online in terza persona, gli utenti del gioco controllano i movimenti e le azioni di avatar umani (la classica feccia della società), facendoli combattere (e quindi morire) in veri scontri a fuoco. Un concept intrigante che sostituisce internet e il gaming online alla televisione, ma che getta ugualmente un'ombra poco edificante sul nostro futuro. Non si arriverà forse a questi eccessi, ma siamo sicuri che un mondo virtuale fatto di automi controllati da noi utenti sia poi così lontano e utopistico, o che i surrogati del Il mondo dei replicanti di Jonathan Mostow siano solo il parto di una fantasia irrealizzabile? Segnalo giusto per completezza Arena, approdato sui nostri lidi direttamente straight-to-video (nonostante la presenza di Samuel L. Jackson) con il titolo di Death Games. Ancora masse esaltate che seguono online combattimenti mortali, un'arena perennemente insanguinata, il solito protagonista sfigato e innocente che si ritrova a combattere per sopravvivere e il cattivo di turno che si eccita con i massacri in diretta web. Tranquillamente cestinabile nonostante una violenza più trucida del solito e due sadiche assistenti giapponesi da paura.

Se tutto quanto citato fino a qui appartiene a una sfera adulta nella caratterizzazione dei protagonisti, quello che rende The Hunger Games un film così atipico e originale è la giovanissima età dei suoi personaggi. Katniss e Peeta hanno solo sedici anni (Gale Hawthorne ne ha giusto qualcuno in più) ed è proprio questa loro giovinezza a renderli due eroi così atipici, anche in relazione con l'alto tasso di morti e violenze offerto dal film. Per trovare un esempio di "survival movie" in salsa teen bisogna andare indietro di oltre dieci anni e ripescare quel cult assoluto di Battle Royale, nel quale Kinji Fukasaku mette in scena una disperata e sanguinosa lotta per la sopravvivenza di alcuni studenti costretti a uccidersi tra loro per rimanere in vita. Qui, ad esclusione del deus ex machina Takeshi Kitano che segue e osserva la carneficina da lontano, non c'è un vero pubblico né tantomeno la televisione a fare da spettatrice alla mattanza. Eppure l'idea di un futuro in cui il governo organizza questa folle corsa al massacro di giovani (ragazze comprese) mette letteralmente i brividi. Come tralasciare poi The Truman Show? La toccante realizzazione della vita come inganno e spettacolo di Truman Burbank rivive in diversi passaggi di The Hunger Games, soprattutto nella figura del regista demiurgo che manovra ogni possibile artificio visivo per rendere lo spettacolo più realistico e roboante possibile.

Voglio citare anche altri film minori che in qualche modo possono ricordare le tematiche tanto care a The Hunger Games. Il tailandese 13 Beloved di Chukiat Sakveerakul è un piccolo gioiellino socio-grottesco-mediatico che parte con toni quasi farseschi per poi sprofondare in una spirale senza controllo di sangue e pazzia, con il solito contorno di cattivo burattinaio fuori di testa, telecamere sempre in agguato, prove da superare (ce n'è letteralmente per tutti i gusti) e sfondo da reality show malato. Il mediocre The Tournament di Scott Mann racconta la sfida tra alcuni killer di professione che si sfidano per il piacere di ricchi guardoni scommettitori, mentre in The Condemned (con l'ex wrestler Steve Austin e l'icona spezza-ginocchia Vinnie Jones) un criminale condannato a morte può evitare l'esecuzione solo se uscirà vincitore da un contest su internet. Per riuscirci deve naturalmente far fuori gli altri nove contendenti per il sollazzo del web.

Ho voluto tenere per ultimo La decima vittima non solo perché è l'unico titolo italiano di questa lista, ma anche perché, con il suo quasi mezzo secolo dall'uscita nelle sale nel 1965, ha anticipato molto del genere fanta-survival. Nel film di Elio Petri con Marcello Mastroianni e Ursula Andress si combatte una caccia mortale a livello planetario in cui i partecipanti sono vere e proprie star. Lo script di Tonino Guerra ed Ennio Flaiano, tratto da un racconto di Robert Sheckley, anticipa addirittura la moda dei reality show, anche se il tutto assume un aspetto molto più esistenzialista e passionale rispetto ai successori ben più votati al sangue e all'azione. Ah, naturalmente c'è tutto il filone gladiatorio, ma lì non si parla di futuro, distopia o fantascienza bensì di storia passata e, purtroppo, drammaticamente vera.

Gli articoli che compongono la cover story:
I romanzi
Il videogioco iOS
I boardgame
Altre opere tematicamente vicine
Il film

AESVI: Il mercato dei Videogames nel 2011

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