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Biancaneve e la beatificazione della bellezza

Biancaneve e la beatificazione della bellezza

Lei brilla di una bellezza eterea ed eterna, inscalfibile, la stessa che illumina i marmi delle statue greche raffiguranti divinità olimpiche. Una serva umiliata, maltrattata e sfruttata che, nonostante la sua condizione, sorride alla vita, canta con la voce cristallina di un usignolo per la gioia di chi può ascoltarla, incantandolo. Un vestito stracciato addosso, zoccoli da massaia ai piedi, spazzola in mano per pulire uno ad uno gli scalini del castello, dimora della regina, sua matrigna. Eppure la messa in piega perfetta, capelli nero corvino taglio anni Trenta avvolti da un elegante cerchietto, il rossetto rosso a colorare labbra e parole, le gote rosate, in piena salute, e gli occhi nocciola tradiscono la sua fiducia in un destino migliore; il suo candore, come maledizione e benedizione, pronta a scatenare invidia e amore, morte e vita. “Io sogno la felicità che un giorno verrà”, una delle strofe di quella prima, straordinaria canzone, intonata dal soprano Lina Pagliughi nella versione italiana, desiderio espresso a un pozzo che non può resistere a concederle la gioia cui è destinata, restituendole indietro l’eco della sua voce, troppo pura per perdersi nelle sue acque.

L’eleganza assoluta in qualsiasi cosa faccia.

La bellezza di Biancaneve è come un elemento esoterico, magico, parte più intima e profonda di quel culto per l’estetica che da sempre ha condizionato l’uomo, anche più della religione (e spesso mescolandosi ad essa). Lei ne è portatrice sana, inconsapevole, ingenua. Se la regina continua, ossessivamente, a interrogare lo specchio, così affascinante da temere di perdere questo potere, Biancaneve si riflette solo nelle reazioni di chi la circonda; in un sicario che lascia cadere il coltello in preda alla disperazione, alla vista di qualcosa di così sacro e inviolabile, nella fauna locale che le volteggia attorno come fosse incarnazione della primavera, nello sguardo languido del principe in calzamaglia, erede di un regno lontano. A chi porta in dono la bellezza senza farne vanto, sono concessi privilegi estranei ai comuni mortali, come una chiave per aprire i cuori altrui. È tutto molto romantico, artefatto, fiabesco per legame di sangue (coi Grimm) e per questo capace di descrivere un certo tipo di società. A riguardarlo adesso, è chiarissimo lo spaccato culturale di riferimento; Biancaneve è l’angelo del focolare, la casalinga idealizzata, bellissima, che amministra la dimora con grazia ed eleganza mentre l’uomo (o sette nani) lavora come un mulo, per poi tornare a casa stanco morto ed essere accolto dalla sua adorabile moglie tra canti, balli e l’inconfondibile profumo di cene regali. Sette nani per sette personalità e sette differenti scenari matrimoniali, tutti domati con la gioia negli occhi.

Lo stacco stilistico è eclatante, come fosse un’attrice reale inserita in un film d’animazione.

Per quanto ora la trama stessa su cui viene ricamata la pellicola e la personalità di Biancaneve risultino irrimediabilmente retrogradi (che poi, oddio, non è che l’evoluzione culturale sia oggi totalmente compiuta, siamo più allo stadio Neanderthal di mezzo), la donna che Disney mette in scena è l’esempio perfetto di quello che un uomo sognava in quel periodo storico. Specchio (non tanto magico) di una pensiero comune che ci siamo tirati dietro fino a pochi anni fa. Una pin-up pudica e amorevole (una Betty Draper), che vive per il suo uomo (o che fa della sua ricerca una missione), la cui nemesi è rappresentata invece da una donna totalmente emancipata, potente ma sola, regina di un popolo che non si mostra mai, facendo risaltare nella sua assenza la totale mancanza di amore verso la sovrana. Una “zitella” marcia d’invidia, ossessionata dalla “brava donna” (rimanendo in tema di simil-propaganda sociale ed educativa) che accentra a sé i sentimenti più caldi di cui l’umanità è capace, arrivando perfino a sacrificare il suo preziosissimo aspetto (al termine di un rituale quasi satanico, deliziosamente oscuro) per ingannare la figliastra e ucciderla nel modo più crudele possibile: sfruttando la sua fiducia incondizionata nel prossimo, dolce e fatale come una mela avvelenata. Le due, però, andranno incontro a una fine diametralmente opposta. La regina fuggendo dalla scena del delitto, sgambettata da un fulmine che suona come una punizione divina e spatasciata da un masso come neanche Willy il coyote, pietra tombale sulle sue brame di essere la più bella del reame.

Lo specchio, i segni zodiacali intorno, l’invocazione della regina. Quando in Disney la buttano sull’esoterismo, vincono a mani bassissime.

Biancaneve, invece, addormentata, immacolata, come quei santi cui Dio risparmia l’onta della decomposizione, venerata nella sua bara/teca, custodita dalla natura stessa. Opera d’arte dall’impatto visivo ed emotivo devastante (è probabilmente una fra le immagini cinematografiche più straordinarie di sempre), riportata alla vita non tanto dall’uomo, dal principe (letteralmente) azzurro, quando dall’amore (a prima vista), descritto come riflesso incondizionato alla bellezza. Che è poi quello che ha lo spettatore quando, durante l’ennesima visione, rimane estasiato da un lungometraggio così pionieristico, maestoso e tecnicamente oltre i confini del suo tempo. I fondali, gli elegantissimi movimenti di macchina, le idee visive custodite nella cassaforte del “racconto per immagini” (l’evocazione dello spirito nello specchio è una di quelle cose a cui non ci si abitua mai, talmente è potente e sovrannaturale), ma soprattutto l’animazione di per sé, dio santissimo. I movimenti di Biancaneve, ballerina sul palco della vita, così realistici e coreografici, preda di una leggiadria fuori dal comune, sono ancora talmente incredibili e fluidi da sembrare liberi da qualsivoglia sequenza di fotogrammi. A guardarla esterrefatti, si capisce subito dove sia finito quel milione e cinquecentomila dollari di budget, rischio di finire in mezzo a una strada compreso nel prezzo. Pazzesco. L’espressività del viso, il modo di gesticolare, di sbattere le palpebre, di tirarsi su delicatamente la gonna per non inciamparci dentro, dettagli che la fanno sembrare umana in modo inquietante, come filmata in motion capture, quasi estranea a questo mondo fantastico. Si finisce per pendere dalle sue labbra, pronti a tutto pur di garantirle la vita che sogna. Una diva creata in studio per non conoscere vecchiaia, vivendo ottantatré minuti alla volta, per soddisfare quel bisogno di bellezza che rende il cinema ancora così fondamentale nella vita delle persone.

Uno dei fotogrammi più straordinari di sempre. La morte, la bellezza perenne, la natura che piange la sua figlia più bella.

Quella sua frivolezza di tempi andati è una tara di cui bisogna prendere atto, ormai digeribile, lasciandosi andare senza opporre resistenza a quella che è una fra le rappresentazioni di beltà (in senso generale) su pellicola più pure che esistano, ben oltre la condanna di “principessa Disney” a vita. Per questo, Biancaneve e i sette nani è un classico (se non IL classico d’animazione per eccellenza), un film che riesce a raccontare un certo tipo di pensiero sociale d’epoca, su cui riflettere, rimanendo soprattutto un trionfo audiovisivo che ormai non teme più l’erosione del tempo, diventando simbolo, icona. Qualcosa che non sfiorirà mai.

Questo articolo fa parte della Cover Story "Disney Club", che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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