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Ready Spielberg One

Ready Spielberg One

È uno fra i più grandi narratori viventi. Ha vinto complessivamente trentatré riconoscimenti ed è stato candidato circa tre volte tanto. Sul palco del Dolby Theatre di Los Angeles, dove si tiene ogni anno la cerimonia di consegna degli Academy Awards, è stato ringraziato più volte di quante volte sia stato ringraziato Dio. Ha forgiato l’immaginario collettivo di almeno due generazioni di cinefili. I film che ha diretto hanno incassato nel mondo circa dieci miliardi di dollari, cifra probabilmente destinata a triplicarsi se considerassimo anche quelli che ha solo prodotto. In parole povere, si chiama Steven Spielberg, ed è il cinema in carne e ossa.

Qualche giorno fa, sul palco del South by Southwest 2018, ha confessato al pubblico che Ready Player One, il suo ultimo film, è stato “il più grande attacco d’ansia” che abbia mai avuto. Ora, facendo la tara alle affermazioni di un artista che sta mostrando per la prima volta la sua opera e che quindi si lascia andare a quel pizzico di captatio benevolentiae, l’idea che un vecchio lupo di mare come Spielberg - che da tempo ha raggiunto lo status di poter fare il cazzo che vuole dietro la cinepresa senza curarsi del parere di pubblico e critica - si faccia prendere dall’ansia mi fa girare la testa. Non solo perché si tratta di un bagno d’umiltà al quale pochi cineasti ci hanno abituato, ma anche perché, se c’è qualcuno che durante i suoi quarant’anni di onorata carriera ha dimostrato di saper incontrare (se non, addirittura, di saper indirizzare) il gusto del suo tempo e di coniugare intrattenimento e arte, mettendo d’accordo tanto lo spettatore occasionale quanto l’appassionato, quello è proprio Spielberg.

I detrattori dicono di lui che inventando il popcorn movie con Lo squalo, nel 1975, abbia ucciso il cinema americano, che abbia messo da parte l’autorialità per fare un sacco di soldi, che sia commerciale, nell’accezione negativa del termine. Un’etichetta che, per quanto non sia del tutto falsa, suona quantomeno riduttiva: nonostante sia un’entità vasta, mutevole, bipolare, volubile, difficile da comprendere e capace di voltare le spalle a franchise apprezzati nello spazio di un flop, il grande pubblico ha amato e continua ad amare i suoi film in maniera pressoché costante. Ma non è Spielberg a essersi piegato alle regole del mercato, anzi, è vero il contrario. Mostrando sempre e comunque una padronanza del linguaggio cinematografico fuori dal comune, stabilendo nuovi standard, mantenendo sempre una cifra stilistica inconfondibile, alternando e spesso mescolando non solo i generi ma anche intrattenimento e impegno, Spielberg ha più volte plasmato il gusto della gente, ha imposto il suo cinema alle masse, ha fatto sì che il business diventasse “spielberghiano” e non il contrario.

Ready Player One è stato forse il più grande attacco d’ansia che io abbia mai avuto. Quando dirigo un film dietro la cinepresa, normalmente tengo la situazione sotto controllo. Ma quando ho deciso di fare un film sedendomi tra il pubblico con voi, e dirigere il film dalla poltrona vicino alla vostra, questo significa che ho girato il film per voi. E la vostra reazione è tutto.
— Steven Spielberg

Non solo, come detto da giopep nell’articolo che ha aperto la Cover Story di Outcast di marzo, Ready Player One rappresenta un curioso cortocircuito culturale, nel quale è lo stesso fautore di quell’immaginario citato a rielaborare suggestioni ed elementi del passato, ma è anche l’inaspettato ritorno di Spielberg a un cinema più ludico, dopo una parentesi durata dieci anni, durante i quali il regista sembrava aver definitivamente virato con decisione verso opere più seriose. La sua ultima incursione nel puro intrattenimento era stata Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo nel 2008, e forse questo spiega l’ansia. Non tanto perché il quarto episodio di Indiana Jones, nonostante il successo straordinario al botteghino, divise in maniera netta il pubblico tra chi lo riteneva un buon revival della saga e chi invece non lo considerava all’altezza dei precedenti. Piuttosto perché probabilmente Spielberg conosce bene i suoi polli, sa che in dieci anni il mercato dei blockbuster è cambiato profondamente e teme di non avere più un grosso ascendente sul pubblico dei giorni nostri. Timori infondati, se lo chiedete a me - che ritengo il fatto di poter vedere in sala due film di Spielberg in meno di due mesi una benedizione immeritata -, ma tutto sommato comprensibili: nel 2008, l'universo cinematografico Marvel era solo un progetto agli albori, che navigava a vista in un mare inesplorato; Facebook e gli smartphone erano bimbi iperattivi di due anni che ancora non avevano compreso le loro enormi potenzialità nell'influenzare le nostre esistenze; la percentuale di rottentomatoes.com non condizionava la scelta degli spettatori; il paradigma dei teenager di tutto il mondo era Twilight; a Hollywood, ancora nessuno si poneva la questione dell’inclusione. Il mondo che Spielberg intende portare in sala oggi con Ready Player One è completamente diverso da quello che dieci anni fa gli fece incassare circa ottocento milioni di dollari. Ragion per cui, quello che all’apparenza sembra un colpo sicuro - trasposizione di un libro amatissimo dai geek di tutto il mondo e che punta forte sulla nostalgia - può assumere i connotati di un pericoloso salto nel buio da 175 milioni di dollari.

Non pensavo che sarebbe diventato un album di vanità dei miei film degli anni Ottanta. Bisogna ricordare una cosa: se i finestrini laterali sono i riferimenti culturali, il parabrezza è la trama, quindi, se si continua a guardare dritto, si può benissimo seguire la storia.

In questi ultimi dieci anni, Spielberg si è concesso solo due (costose) digressioni dal discorso più “maturo” di cui sopra. Entrambe presentano delle affinità con Ready Player One, visto il largo impiego del performance capture, almeno per quanto riguarda la corposa parte del film ambientata in Oasis. Dopo Il regno dei teschi di cristallo, il nostro intraprese un progetto ardito, innovativo, che vedeva coinvolte maestranze del calibro di Peter Jackson, Edgar Wright e Steven Moffat: Le avventure di Tintin - Il segreto dell’unicorno, ovvero una trasposizione animata interamente in motion capture dell’opera del celebre fumettista belga Hergé.
Perdonate il salto di palo in frasca, ma quando giopep mi ha contattato chiedendomi se ero interessato a scrivere qualcosa su Spielberg, la prima cosa che ho pensato è stata “trova un modo per parlare di Tintin”. Quindi, esaurito l’argomento principale, lasciatemi divagare e fatevi consigliare il recupero di un film incomprensibilmente passato in sala in sordina, probabilmente il miglior Spielberg di puro entertainment dai tempi di Jurassic Park.

Rivisto oggi, Le avventure di Tintin, a differenza di tanti altri esempi di performance capture (vedi le sperimentazioni di Zemeckis), non sembra un film di sette anni fa. È invecchiato benissimo e non appare affatto avulso dal resto della filmografia del regista, a differenza dell’altra incursione nel campo di questa ancora acerba tecnica d’animazione digitale, cioè Il Grande Gigante Gentile.

Per quanto la qualità di alcuni dettagli sia inevitabilmente sorpassata, il ritmo perfetto, l’incredibile fotografia, il look retrò, lo sguardo così esteso che lo si può apprezzare davvero solo sul grande schermo, le fantasiose transizioni e i movimenti di macchina che sarebbero impossibili in un film live action sopperiscono alla grande. Tutti quelli che l’hanno visto ricordano il piano sequenza ambientato per le strade di Bagghar, citato perfino da Naughty Dog nel quarto episodio di Uncharted, ed effettivamente si tratta di un mirabolante sfoggio di maestria. Ma il film è strapieno di momenti che lasciano a bocca aperta chi ha a cuore la tecnica cinematografica. Altro particolare che rappresenta una costante del cinema di Spielberg, Le avventure di Tintin è un film parlato, molto parlato. Ma non nel senso (negativo) di "prolisso" o di "verboso". È come se Spielberg fosse così bravo a narrare una storia attraverso le immagini - tant’è che non resiste alla tentazione di raccontare una storia nemmeno nei primi quattro minuti, durante i titoli di testa - che può permettersi il lusso di infarcire i suoi film di testo e di dialoghi senza essere ampolloso. Anzi, dando la sensazione di essere capace, nello stesso spazio e nello stesso tempo, di raccontare il doppio di quanto riesca a raccontare il regista medio. Spielberg ha una marcia in più rispetto ai suoi tanti imitatori e viaggia a una velocità irraggiungibile per la maggior parte dei cineasti che si cimentano oggi con i blockbuster movie: è così che i suoi personaggi e le sue storie riescono a entrare nel cuore del pubblico; è per questo che il suo cinema è capace di comunicare su più livelli in maniera trasversale a grandi e piccini, a chi cerca lo svago e a chi vuole la sostanza.
Il segreto dell’unicorno è il vero erede spirituale di Indiana Jones, un film d’avventura di rara classe, colto, appassionante e trascinante. Recuperatelo ad ogni costo, meglio se prima di Ready Player One, anche solo per poter apprezzare come la tecnologia del motion capture sia progredita in questi anni.

Questo articolo fa parte della Cover Story su Ready Player One, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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