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The Post: lo Spielberg che ci piace

The Post: lo Spielberg che ci piace

Ora, prendendo il titolo del pezzo alla lettera, si potrebbe pensare che esista anche uno Steven Spielberg che non mi piace, ma la realtà è che Steven Spielberg, a livello stilistico, mi piace più o meno sempre, e con gli anni ho finito col passare sopra anche ai suoi film meno riusciti - tipo Hook – o a uno scivolone senza appello come Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo. Dipenderà dal fatto che la mia prima esperienza in sala si è consumata con E.T. l'extra-terrestre? Vai a sapere.

Del cineasta di Cincinnati (ho allitterato?) gradisco soprattutto la poetica semplice e universale che è riuscito a infilare senza troppi scossoni in tutti i suoi film, fin dai tempi di Duel. Prendete un lavoro a caso di Spielberg e sicuramente ci troverete una persona comune che si dibatte tra qualche problema irrisolto, in genere affettivo, meglio se del tipo “genitori-figli”, e infilata suo malgrado in situazioni fuori dall’ordinario. Poco cambia – per così dire – se dette situazioni siano le acque costiere infestate da uno squalo, un’invasione aliena o la folle macchina del Nazismo.

Questa poetica, nel corso degli anni, è stata fatta colare lungo due grossi filoni: da un lato quello metaforico/fantascientifico, dall’altro quello drammatico/realistico. Alle volte è persino capitato che il regista abbia sovrapposto la lavorazione di due film apparentemente diversissimi, ma in realtà intimamente legati: in quest’ottica, il binomio più eloquente è senz’altro quello composto da Jurassic Park e Schindler's List, entrambi del 1993, laddove il parco a tema e i dinosauri fuori controllo finiscono inevitabilmente a far pendant col campo di concentramento di Kraków-Płaszów e con la brutale, imponderabile bestialità del Nazismo.

Caso vuole che anche questo 2018 sia anno di doppietta, con The Post da una parte, in uscita oggi nei cinema, e l’imminente Ready Player One, tratto dall’omonimo romanzo di Ernest Cline che racconta, tra le altre cose, della distorsione dell’informazione da parte dei media, di totalitarismi e di pasticci politici e sociali vari. Tutte cose presenti, con un peso specifico senz’altro diverso, anche in The Post, film che tenta di mettere a fuoco la faccenda dei Pentagon Papers attraverso il punto di vista dell’allora direttore del Washington Post, Ben Bradlee (Tom Hanks), e della sua editrice Kay Graham (Meryl Streep).

Per chi non lo sapesse (io stesso, per dire, non ero troppo sul pezzo), il pasticcio dei “quaderni del Pentagono” ha avuto origine da uno studio commissionato nel 1967 dall’allora segretario alla difesa americano Robert McNamara (che nel film ha la faccia di Bruce Greenwood) e dedicato alla guerra in Vietnam. Gli esiti di tale studio risultarono talmente controversi per il governo che vennero classificati come top secret, tenuti nascosti addirittura a una parte delle autorità e, ça va sans dire, al popolo americano. Tuttavia, alle volte, la corrente dei tempi è difficile da fermare: alla stesura dei documenti collaborò l’analista politico civile Daniel Ellsberg (Matthew Rhys, non a caso tra i protagonisti di The Americans). Ellsberg, nel 1971, decise di informare della faccenda il New York Times, che venne illecitamente in possesso e pubblicò una parte dei documenti prima di incorrere nell’àut àut di Richard Nixon. Il caso dei Pentagon Papers alla fine arrivò davanti alla Corte Suprema, e tra le altre cose contribuì all’innesco dello scandalo Watergate.

Tutta questa faccenda complicata, però, è solo la premessa del film di Spielberg che, come si può facilmente intuire dal titolo, punta l’obiettivo sul Washington Post, su Kay Graham, Ben Bradlee e sui membri della redazione di quello che all’epoca era ancora un quotidiano locale relativamente piccolo, legato al partito democratico, che tuttavia si batté per il diritto di proseguire la pubblicazione dei documenti incriminati al netto dei rischi e del vento politico contrario.

Meryl Strep e Tom Hanks a tavola mentre si mangiano il film.

Il film non fa nulla per nascondere l’intento di sottolineare l’importanza del giornalismo d’inchiesta nel clima sociopolitico attuale. Per usare il pennarello grosso: The Post parte dal recente passato per puntare il dito sull’amministrazione Trump - evidenti i parallelismi con Nixon - e sul tema del femminismo. Anzi, a suo modo, questo di Spielberg è quasi “cinema d’inchiesta”, che affianca l’antipatia di buona parte dell’industria dell’intrattenimento statunitense verso il presidente in carica: penso a film usciti di recente come Tre manifesti a Ebbing, MissouriDownsizing, e persino Coco, che celebra la cultura messicana. Per non dire poi della scelta di Netflix di lanciare il nuovo show di David Letterman proprio con l’ospitata a Barack Obama.

Divagazioni solite a parte, nonostante l’ossatura di The Post sia grossomodo quella del thriller politico, ancora una volta Spielberg non viene meno alla sua poetica più intima, personale, scegliendo - pur senza sminuire il background sociale - di prescindere da ogni intento documentaristico per concentrasi soprattutto sulle implicazioni psicologiche e sulle molle che animano i personaggi, esattamente come in Munich o nel recente Il ponte delle spie.

In questo caso, il ruolo di “persone comuni in acque alte” spetta all’editrice del Post, al direttore, ai membri della redazione e, metaforicamente, anche alla testata che, come sottolineato da un dialogo, all’epoca non giocava «nemmeno nello stesso campionato del New York Times» (a proposito: quanto è diventato bravo Spielberg a sciogliere didascalie e backstory nelle scene senza sprecare nemmeno una sillaba?).

Ora, premesso che tutto il cast è particolarmente in forma sia per quanto concerne i ruoli principali (Tom Hanks, ormai, con la sua sola presenza aderisce perfettamente alla poetica di Spielberg) che per quelli di contorno, tra le cui fila compaiono - oltre ai citati Bruce Greenwood e Matthew Rhys - facce note come Sarah Paulson, Alison Brie, Jesse Plemons e soprattutto l’ottimo Bob Odenkirk (Better Call Saul, Nebraska), a mangiarsi davvero il film, quando è in scena, è senz’altro Meryl Streep.

Il cast "di contorno", con in testa Bob Odenkirk, è senz’altro all'altezza dei protagonisti.

Già sul piano della scrittura, il personaggio dell’editrice del Post è probabilmente quello costruito meglio, nonché quello che si fa carico del maggior numero di significati e responsabilità in seno al racconto. La Kay Graham di Meryl Streep è una donna che lotta con gli artigli e con i denti per guadagnarsi il rispetto di un mondo, quello del business dell’editoria americana degli anni Sessanta/Settanta, prevalentemente maschile, nonché per venire a patti con la pesante eredità del padre e del marito defunto, precedenti editori della testata.

Ma non solo: la scelta sul pubblicare o meno i documenti top-secret mette in discussione anche i rapporti della Graham con la buona società di Washington, società nella quale è nata e crescita e della quale fanno parte alcuni fra i suoi amici più prossimi. In questo senso, il film porta avanti una posizione radicalmente femminista, perché se il personaggio di Hanks, sul piatto dei rischi, si gioca “solo” il posto e nemmeno la reputazione, oltre ad essere mosso sì da giustizia, ma anche e soprattutto dal gusto per la gloria (come gli viene insinuato dalla moglie, non a caso un’altra donna), l’editrice rischia sotto ogni aspetto, anche per via della scelta di far quotare in borsa la testata. Eppure Meryl Streep, in una delle sue interpretazioni più clamorose di sempre, riesce a restituire tutti i tratti, le complessità e le contraddizioni del personaggio: la forza e la tenacia, sì; ma anche la delicatezza, la dolcezza e persino una vena di persistente malinconia.

Una GIF a caso con Alison Brie, ché non vorremmo dimenticarci di lei, no? ♥️

A livello formale, The Post prosegue sul solco tracciato dagli ultimi film di Spielberg, con la solita, impeccabile fotografia del fidato Janusz Kaminski e il taglio equilibrato e piacevolmente “old style”, meno asciutto rispetto, ad esempio, rispetto a Il caso Spotlight, che nel raccontare il contesto del giornalismo d’inchiesta si rifà a classici anni Settanta come Tutti gli uomini del presidente (verso cui The Post non nasconde velleità da prequel, tra l’altro). Intendiamoci, non che i due film siano poi così distanti: in fondo condividono la scrittura di Josh Singer, qui chiamato ad affiancare la sceneggiatrice Liz Hannah. Tuttavia, la mano di Spielberg si vede eccome, anche e soprattutto nelle piccole cose, ad esempio la scelta così piacevolmente retrò di buttare un occhio alle rotative e mostrare la composizione dei caratteri tipografici.

Insomma, The Post rappresenta probabilmente uno tra i film più equilibrati e riusciti del filone “serio” di Spielberg, riuscendo apparentemente senza sforzo a elaborare quel cinema classico che L’ora più buia, per fare un esempio recente, insegue disperatamente senza mai agguantare. Bello bello.

Frechete!.jpg

Ho visto The Post grazie a un’anteprima stampa a cui noialtri di Outcast siamo stati gentilmente invitati, e l’ho apprezzato praticamente sotto ogni punto di vista (fatta eccezione, forse, per una piccola sbavatura finale à la Metal Gear Solid). A margine, la pellicola è in corsa per l’Oscar al miglior film e per quello alla miglior attrice: spero davvero che La Streep esca dal Dolby Theatre con la statuetta in borsa.

E siamo ripartiti!

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