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The End of the F***ing World: Deadpan per focaccia

The End of the F***ing World: Deadpan per focaccia

Una delle immagini migliori di Emma Cline, nel suo Le ragazze, è probabilmente quella in cui la protagonista del libro descrive la sua giovane ospite e, assieme a lei, per certi versi, l’intera adolescenza:

Era persa in quel senso di profonda certezza che non esistesse altro al di fuori della sua esperienza. Come se le cose potessero andare in una direzione sola, e gli anni ti conducessero fino alla stanza in fondo al corridoio in cui ti aspetta la tua inevitabile identità: embrionale, porta a rivelartisi. Che tristezza rendersi conto che a volte laggiù non ci si arriva proprio. Che a volte si vive tutta la vita svolazzando qua e là a pelo d’acqua mentre gli anni passano, senza essere baciati da quella fortuna.

James e Alyssa sono due diciassettenni borderline di un qualche liceo inglese: lui, nichilista senza emozioni, sogna di diventare un serial killer; lei, affamata di emozioni, è annoiata dalla medioborghesità dei genitori e dalla vita vicaria in cui sembrano immersi i suoi coetanei. Due schizzati che, per un qualche scherzo di quel destino che pensavano avesse già scritto le loro storie, si ritroveranno insieme in un viaggio on the road, di cui saremo spettatori per meno di tre ore.

In otto episodi, The End of the F***ing World mette in chiaro ancora una volta come, di tutti i periodi della vita, l’adolescenza sia quello più incasinato e incomprensibile, un nodo di Gordio che, spesso e volentieri, finiamo per dover districare ben oltre i vent’anni. Tutte le sensazioni sono amplificate, distorte, e noi ci condanniamo a essere degli stranieri in terra straniera, incapaci di comprendere e venire compresi dagli altri. Non c’è un punto di contatto e, anche se ci fosse, l’inevitabile identità è lì che ci aspetta, in fondo a qualche corridoio, pronta a confermare quanto poco siamo già convinti di essere.

Quando Alyssa va da James per trascinarlo con sé, è solo per la voglia di scappare fortissimo da un mondo che non appartiene a nessuno dei due. Poco importa che lei voglia solo l'adrenalina dell'ignoto e lui la sua prima vittima. L’odio, quando si è giovani e incompresi, è la benzina necessaria per alimentare un viaggio perfetto (d’altronde, parla uno che la cosa più romantica che ha detto è stata “ti amo perché odiamo le stesse cose”). Ovviamente, la perfezione non è di questo mondo, e con l’andare della storia verrà a galla il fascino degli errori, delle cicatrici e degli sbagli in moto costante che caratterizzano ogni singola persona su questa terra, e che finiranno per tenerci incollati alla poltrona per tutta la durata della serie.

The End of the F***ing World è una favola pulp, un romanzo coming of age perfetto per una generazione che non sa relazionarsi, che pretende di sapere tutto da chi non ha ancora capito un cazzo, e passa ogni giorno a mascherarlo dietro un vicinato perfetto, un rumore di fondo, una relazione, un lavoro, un fare illuminato.

Uno spaccato assurdo, in cui l’apparente superficialità e bidimensionalità di due personaggi sboccia, molto presto, in due interpretazioni profondissime, affascinanti, semplicemente impeccabili. Alex Lawther - con quella faccia da giovane Jeremy Clarkson, povero lui - e Jessica Barden - che sembra tantissimo una delle mie prime cotte, per somiglianza e atteggiamenti - catalizzano costantemente l’attenzione, anche grazie a una scrittura dal ritmo esaltante, capace di mettere le cose sotto la giusta prospettiva. Gli adulti sono spesso più incasinati degli adolescenti. Le cicatrici servono per ricordarci che ci siamo stati. La nostra identità non è già scritta. Un incontro, nel bene o nel male, può cambiarti la vita.

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Ho guardato The End of the F***ing World su Netflix, in inglese coi sottotitoli in inglese, nel giro di una seduta unica: ho montato il divano nuovo, ho tirato fino al quinto episodio, pennica, ultima tranche. Ne ho scritto di getto, ancora un po’ innamorato da questa storia così folle e, tutto sommato, così vera. Spero non ne facciano mai una seconda stagione. Ringrazio la concittadina @inpantofole per il titolo perfetto dell'articolo.

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