Outcazzari

Con We Happy Few non basta un poco di zucchero

Con We Happy Few non basta un poco di zucchero

Spinto da sentimenti contrastanti, We Happy Few prova a sminuzzare i “favolosi anni '60”, ma alla fine – affascinato com'è da quella decade – ne preserva miti e fasti. Matita alla mano, Compulsion Games tratteggia un passato distopico di orrore e disperazione, un mondo purulento e quasi Orwelliano, che pur peccando di originalità non suscita indifferenza. All'ombra del Big Ben, i fantasmi si trascinano stancamente e senza un perché, in un'esistenza di plastica e sorretta da sostanze psicotrope. La felicità passa per una pillola da ingoiare alla bisogna, perché così vuole il Grande Fratello. Chi rinuncia alla prescrizione apre sì gli occhi, ma mette a repentaglio la sua vita: il regime non accetta il dissenso, minimo o trascurabile che sia. 

Accantonato un efficace prologo – sorta di manifesto programmatico – mi vedo costretto a vestire i panni di un ribelle, un burocrate cacciato a viva forza dall'Eden sintetico. Tutto passa per una prospettiva in prima persona, collante di un survival dal ritmo pacato e che pone l'accento sull'esplorazione. Dapprima si procede quasi a tentoni, correndo a perdifiato verso il nulla e smarrendosi fra vicoli e viuzze. Poi tutto cambia: le quest si accomodano sul taccuino, diario in cui il protagonista riversa tutto il suo quotidiano, e la spoglia mappa a schermo si popola di note e punti d'interesse, trovando così una ragion d'essere. Chiude il cerchio un'interfaccia utente funzionale, priva di fronzoli e tutt'altro che macchinosa.

Al netto di proclami e promesse, We Happy Few è per ora un titolo fin troppo acerbo, un gioco zavorrato da un design farraginoso. Le quest si susseguono stancamente e scivolano nell'indifferenza: spesso per venirne a capo non è richiesta alcuna abilità, è sufficiente fare leva sul baratto o scomodare il crafting. Talvolta ci si sporca le mani con il sangue dei derelitti, azzuffandosi con un sistema di combattimento fin troppo rigido e legnoso. I pazzi che popolano il mondo di We Happy Few sono tendenzialmente pacifici, ma al primo sgarbo scattano alla giugulare. Non brillano per intelligenza, ma in gruppo rappresentano una minaccia da tenere in seria considerazione. E allora talvolta val bene scappare a gambe levate, per evitare conseguenze a dir poco nefaste. 

A prescindere dai problemi riscontrati, vi sono in debito di una precisazione doverosa: We Happy Few resta un gioco in divenire, un progetto che ha abbracciato la formula dell'Accesso Anticipato di Steam (e le sue omologhe su GOG o Xbox One). Compulsion Games ha deciso di cogliere questa opportunità, prestando il fianco a numerose critiche, molte delle quali costruttive e accolte con benevolenza dallo sviluppatore, sempre disposto a migliorarsi. E in effetti nell'arco di quasi un mese (la prima release ha fatto capolino il 26 luglio) la situazione si è fatta progressivamente più rosea, pur restando sempre a tinte abbastanza fosche. Al giro di boa sono molti degli elementi che mancano all'appello, compresa la generazione procedurale degli eventi e l'intero tessuto narrativo. Elencarli non ha molto senso: We Happy Few è un cantiere aperto, punto e basta. 

Un paletto di frassino e un arcobaleno...

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A meno che il mecenatismo non rientri nelle vostre corde, resterei in disparte e mi limiterei a osservare We Happy Few con un certo distacco. Diamogli tempo e un pizzico di fiducia, perché altro non si può fare.

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