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Il Diorama-rama di Lantern

Il Diorama-rama di Lantern

Si dice spesso che l’amore rende tutto più magico, bello, vivido. L’amore è il sale sulle patatine, è una partita a Super Mario World. L’amore, insomma, è quella cosa che ci fa vedere il mondo a colori.

O perlomeno così è in Lantern, ultima opera degli italiani Storm In A Teacup. L’incipit del gioco, infatti, mostra un paese molto simile all’antica Cina e la sua principessa inaridirsi per mancanza d’amore, fino a perdere il calore dei propri colori per tingersi della freddezza che solo una scala di grigi può dare. Ma ovviamente, cuore e amore si accompagnano sempre a Sole, il sole irradia tutto con la sua luce e una lucciola non è una lanterna, ma solo questa può essere magica e ridare al mondo colori vividi e sgargianti. Un compito gravoso che bel vale il titolo del gioco.

Nelle fattezze di una rossa lampada cinese, infatti, il giocatore è chiamato a svolazzare in giro e irradiare colline, pianure, case e animali che, progressivamente, riacquisteranno le tonalità originarie. Il movimento è all’apparenza piuttosto libero, con la portatrice di luce che può svolazzare in giro beatamente. Basta che il giocatore tenga pigiato il pulsante A (prendendo per buono che abbia un pad Xbox 360) e via così, liberi, fin quando non si vola troppo in là e si sbatte su un wireframe che segnala il muro invisibile. Vabbé, i livelli sono tutti molto vasti e quindi questa limitazione tende a farsi sentire di meno.

Si prosegue così, svolazzando e colorando, colorando e svolazzando. “Rinvigorendo” porzioni di mappa, si aprono infatti grossi portoni che conducono ad altre zone, tutte grigie ma pronte, ovviamente, ad essere riportate a miglior vita. O meglio, a nuovo colore. Ciò che infatti mi ha colpito molto in Lantern è la quasi totale assenza di elementi “vivi” negli scenari. Sì, ogni tanto c’è qualche maialino che grugnisce o uccello che sbatte le ali, ma i quattro macrolivelli che compongono il gioco appaiono come dei giganteschi diorami dove, semplicemente, si è chiamati a dare una mano di vernice, accompagnati da bei brani rilassanti che esplicitano come non mai il mood del gioco.

Lantern, infatti, sembra non puntare ad altro che al relax del giocatore. Un po’ come se fosse un gigantesco color book per adulti, insomma, di quelli che tanto si scrive vadano di moda ultimamente. Certo, è possibile concedersi un po’ di esplorazione in più alla ricerca di particolari “pietre” celate più o meno remotamente nei livelli o, ancora, puntare alla massima velocità. La Lanterna può infatti, dopo aver colorato una determinata quantità di superficie, aumentare considerevolmente la sua velocità di spostamento o, invece, creare un’esplosione di luce che raggiunge in pochi istanti un’area piuttosto vasta. Però, al di là del vedere come si colora il grigiume circostante, io ci ho trovato poco altro, al punto che in tutte le mie sessioni dopo qualche minuto il relax lasciava spazio alla noia.

In autunno cadono le foglie e a volte anche altro.

I quattro livelli di gioco non offrono sostanziali differenze, con quello innevato che però personalmente mi è piaciuto di più. Sarà che si avvicina il Natale, sarà che forse lì il look minimale del gioco si esprime al meglio o sarà per le caverne, che con il loro buio creano maggior contrasto con la luce della Lanterna, dando così un distacco più netto tra la situazione preesistente e quella che risulta dalle azioni del giocatore.

Perché forse è quella desolante assenza di vita che più mi ha lasciato freddo in Lantern. Qualche casa accenderà le luci delle finestre, qualche camino produrrà sbuffi di fumo,. dalle terme si solleverà vapore e le pale dei mulini si muoveranno. Sempre nello stesso verso. Gli “output” di Lantern, infatti, sono limitatissimi e contribuiscono a restituire quella strana sensazione di cui su. Il paragone con Flower, spesso citato come ispiratore del gioco di Storm In A Teacup, appare in questo caso impietoso, con il titolo “madre” che proponeva un vento davvero portatore di vita, in grado di far fiorire campi e donare movimento e dinamismo al mare di erba.

Lantern, invece, non mi ha dato questa sensazione, per altro assaggiata anche in ABZU. E manca anche di tutta la dimensione riflessiva e metanarrativa che poteva avere un Journey a caso. Il che di per sé non è un male: è lecito ed anzi auspicabile che certe opere, pur ispirandosi tra loro, tentino finalità diverse. Ma sul giocatore Giuseppe Colaneri, Lantern non ha attecchito più di tanto. 

Lo scenario invernale è di gran lunga il mio preferito.

Dopo venti minuti di relax e iniziale gioia per gli occhi, sono iniziati i “ma perché?”, diventati poi “e…” e sublimati quindi in sbadigli. Ma forse non è demerito di Lantern se io, dopo le tensioni e la stanchezza lavorativa, preferisco concedermi della violenza per sinapsi con Thumper piuttosto che l’etereo girovagare di Lantern. Troppo relax mi stressa. Altri, invece, potrebbero trovare, magari a piccole dosi, l’ultimo gioco di Storm In A Teacup una piccola pausa distensiva tra una scadenza, uno sparatutto mutiplayer e la prole urlante da mandare a nanna. Che magari, proprio con Lantern, potrebbe muovere i primi passi nel mondo dei videogame in tre dimensioni, con un titolo perfettamente al sicuro da ogni elemento inquietante. Magari, però zittendo, dopo dieci minuti la OST del gioco, ché belle le canzoni da Buddha Bar ma quando poi le senti per mezz’ora di fila anche no.

Ho giocato a Lantern per circa quattro ore, grazie a un codice di gioco Steam offertomi dagli sviluppatori. Non ho provato il gioco con la VR, grazie a cui Lantern acquisisce forse maggior coinvolgimento e spessore. Attenzione, però, nel caso vogliate cimentarvi nella prova con caschetto: alcuni utenti hanno subito forte motion sickness.

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